Sull’argento della pellicola resta sempre qualcosa di noi

Dopo 26 anni attraverso 56 diversi paesi, a ogni nuovo viaggio in cui c’è da prendere un volo mi chiedo perché continuare a usare questi scomodissimi rotoli di pellicole dentro ai sacchi di piombo. Infatti ogni volta dinanzi alla minacciosi cancelli dei raggi-X ci sono d’affrontare una serie di negoziati per convincere chi, giustamente ti dice, «sto facendo il mio mestiere», a effettuare un sempre più improbabile controllo manuale. Due esempi per tutte le volte che – ormai quasi sempre – non funziona. Tornata in Israele a rifare un irripetibile lavoro inservibile, offuscato dai raggi, pur di evitare gli scanner sono uscita dal confine con la Giordania, a piedi come un contrabbandiere. Recentissimamente in Iraq, sbandierando fior di nulla-osta ministeriali scritti in Arabo, i miei sacchi neri stretti al petto – «questi devono passare con me» – riuscii ad attraversare tutti e nove i controlli e salire sul volo da Baghdad, per poi arenarmi alla barriera di Fiumicino, dove i miei documenti pieni di timbri colorati sono stati considerati inutili arabeschi.

Di là dalle non poche complicatezze della pellicola lungo le impervie rotte di molte peregrinazioni remote, ogni volta c’era da mettere in conto il dilemma di circostanze che portavano quasi sempre a qualche contrada senza corrente elettrica e di volta in volta, sotto la pioggia battente, nel vento salino tra le onde, dentro una tempesta di sabbia, o magari nella condensa di un’incendio che sotto i getti d’acqua dei pompieri che istantaneamente ti vela, obbiettivo, specchio e visore. Inutile dire, la macchina meccanica la smonto come un fucile, l’asciugo, la pulisco né mai si pianta. Gli odiosi caricatori del flash elettronico, quando la temperatura cala sotto lo zero, laddove l’asprezza dei monti non prevede (mai!) strutture alberghiere, occorre attaccarli alla batteria della Jeep e/o tenerseli al caldo in fondo al sacco a pelo affinché non si scarichino.

Oggi lavoro la notte o nei giorni di chiusura nel silenzio immobile dei musei archeologici e sebbene mi avvalga delle tecnologie più avanzate per finalizzare le immagini che realizzo intorno a figure umane abitate dai millenni, la mia matrice rimane d’argento. La parola fotografia rimanda non già alla replica di quanto è riflesso nello specchio dei miei occhi, ma al tratto della luce, ossia ciò che è invisibile nell’oscurità. Le fotografie sono come l’ombra che mi precede quando cammino. Sono come l’orma sotto al mio passo, ognuna diversa dall’altra, tutte uniche, tutte mie. Quando faccio una fotografia, del mondo che appare tutt’attorno cerco l’essenza invisibile di quel dentro di un fuori che – per Merleau-Ponty – è il fuori di un dentro. La realtà di un mondo in cui, come l’arciere fa di sé freccia e bersaglio, il mio punto di vista, nell’instante e la durata di ciò che guardo, coincide con la visione del soggetto interiore che compie ogni mia azione per coglierlo e fissarlo nel tempo.

L’unicità della presenza di quel mondo dentro e fuori di me, continua senza interruzione in un supporto di cui, diciamo pure per analogia, c’è “per davvero”. Non così quando la replica innumerabile dell’hic et nunc intasa la memoria transitoria dello smartphone, poiché «esserci» non sembra più “reale” senza la traccia di un’evidenza visibile e la sua simultanea condivisione con un improbabile testimone remoto. 

Sembra più prezioso, quando si fa una fotografia sulla pellicola, siamo più attenti, più consapevoli, non solo perché (apparentemente) più costoso del digitale, ma perché pensiamo resti qualcosa d’insostituibile e forse per sempre qualcosa di noi. 

GF 2017

Pubblicato su Origami n. 63, 26 Gennaio – 1 febbraio 2017

FIGURÆ: NOTA DELL’AUTORE

Un libro è il calco di un’esperienza interiore, l’orma delle storie che hanno attraversato un orizzonte privato della conoscenza del mondo.

New York 1990, sono al termine di un corso di studi di fotografia, ho vent’un anni e il mondo dinanzi agli occhi è immediato e irraggiungibile. 

Chiave o pretesto, in quel tempo credo che la photographie du réel sia il linguaggio per penetrare l’universo impervio e scabroso di quegli uomini che nell’immaginario collettivo di un passato recente appaiono come archetipi di un “ideale” del maschio occidentale – pugili, minatori, legionari, torero, pompieri, marinai – realtà umane impenetrabili al mio sguardo. Trascinata da una corsa febbrile a tutto questo non penso. In una cieca compulsione voglio vedere, voglio guardare ogni cosa che mi sembra impossibile da avvicinare. Ogni anno sposta il punto di vista sui codici incomprensibili, i gesti ripetuti come atti rituali. Attributi esteriori, i paramenti si svuotano e disvelano ciò che non sapevo di cercare: non la figura maschile incarnata di una forza presunta, ma spogliato l’individuo, la sua assurda fragilità, struggente nello scontro fisico estremo. 

Nel sesto anno il progetto si definisce sull’arco di un solo orizzonte e soltanto nel compimento finale inizio a capire che gli occhi cercano di trattenere quanto in ogni istante sfugge alla realtà del visibile.

Nell’eco delle voci, al vivo di quei giorni, in queste pagine, ventitré anni dopo l’avvio del progetto Des Hommes, ho voluto ritrovare il respiro che l’ha portato per dieci anni.

DEL COMBATTIMENTO

New York 1990: è un pomeriggio di marzo, salgo sul treno «A» in direzione Brooklyn. Studentessa all’International Center of Photography di Manhattan, la prima Hasselblad a tracolla, il treppiedi in spalla, mi faccio rubare ogni cosa prima ancora di arrivare. Al culmine della disperazione mi precipito al National Arts Club dal Chino: mi mette tra le mani un’altra macchina fotografica e taglia corto « se ci torni domani Te la lascio». Brooklin, Front Street 77:  dal marciapiede leggo un’insegna rossa, Gleason’s Gym. Salgo per una scala di cemento con lo zoccolo alto di vernice azzurra come a scuola; si sente un battere di colpi sordi, l’ansimare smorzato di voci maschili. Sull’ultimo gradino esito un attimo, impugno la maniglia e spingo la porta, resiste, dimentico che negli Stati Uniti si aprono al contrario, tiro con forza ed entro. Per la prima volta varco la soglia di quello spazio infinitesimale che mi separa dalle cose. 

Occhi sfuggenti, naso rotto, Hira Becker è il direttore. Mi lancio in una gran spiegazione sul lavoro che vorrei fare, fuma senza ascoltarmi, poi guardandomi all’improvviso accorda il permesso raccomandando di «non importunare i ragazzi» e pagare l’entrata di un dollaro, «come tutti». 

Dalle 17 alle 22, cinque giorni alla settimana sono a Front Street. Passa un mese, poi due, all’improvviso desidero cambiare aria, vedere un’altra realtà e con occhi nuovi penetrare più a fondo la dimensione che inizio a scoprire. Un vecchio allenatore mi spedisce a Harlem da “un amico”. Il Physical Johnson Boxing Club è un umido sottosuolo dove si batte una folla di portoricani. Una sera vengo condotta a un vero combattimento nel Queens, là – due metri e zero quattro, due revolver bene in vista – Big George irrompe  sul mio cammino. Volano altri tre mesi e negli occhi che tutti i giorni guardano in fondo al mio obbiettivo c’è la disperazione e una dignità che vuole essere raccontata. Nel Bronx, dopo l’allenamento, al Fort Apache Youth Centre, la notte si spara al tirassegni nel seminterrato. Big George mi porta con sé per tutti iclub di New York e nelle sale dei match, affollate e fumose in fondo a qualche strada. Tutto cambia quando i pugili divengono professionisti: pagati, si passa da tre a sei round, i guanti ridotti e più nessuna protezione alla testa, ma il vero prezzo è la posta altissima che pagano loro, la via senza ritorno per uscire dalla strada, le lesioni cerebrali. Trascorre un anno, è tempo di tornare in Europa, il match di Tyson è l’ultimo che vedrò. 

Con un’automobile bordeaux attraverso la notte per arrivare al peso poco prima dell’alba. Atlantic City, 6h30: Tyson è una star e i media internazionali sono schierati in forze. Non ho l’accredito, m’infilo tra la folla e non so come raggiungo il bordo palco, l’SWC a settanta centimetri dallo slip rosso di Iron Mike sollevo il flash altissimo davanti a tutti e scatto tre immagini. Si alza un coro di proteste, vengo immediatamente messa alla porta – ma ormai non ha più importanza.

DELLA TERRA

Donetzk, Donbass, Ucraina: ventiquattro ore su ventiquattro, tutti i giorni della settimana, quattro turni di sei ore, ottanta dollari al mese, questo le Shakhty del Donbass: cento sessanta miniere comparse tra la fine dell’ottocento e l’inizio del XX secolo. Questo regno della notte stende le sue città sotterranee dentro un mosaico di gallerie e cunicoli, senza posa attraversati dal vento nel cieco respiro della terra. Il mio russo è ancora approssimativo, chiedo due volte la profondità delle miniere; una mano scrive dei numeri, sulla carta quadretti leggoda–700mt.a–1.400mt. 

Si scende al cambio del turno con una cremagliera, sorta di montacarichi che porta i carrelli di carbone e sino a quindici persone. Mille metri fanno circa dieci minuti, sebbene la discesa sembri eterna, la velocità è “sostenuta” e all’arrivo è consigliato tenersi, le gambe flesse, pronti al contraccolpo. Sul fondo tutti scompaiono ingoiati nelle tenebre. Le zone più vicine sono a un’ora di marcia: la torcia è collegata a una batteria di due chili alla cintola; puntato sui piedi, un cono di luce ritaglia un sottile triangolo luminoso che fruga la profondità del buio e acceca chiunque vi stia di fronte. Si cammina in silenzio in fila indiana, si scivola, si affonda all’improvviso, si urtano ostacoli inaspettati, talvolta quando la pendenza cambia di colpo, si cade.Il sole può brillare alto nel cielo, la notte essere piena di stelle e qui sotto il mondo migliaia di uomini senza posa. Nessuno esce dalla miniera sino al termine del suo turno. In ogni “cantiere” lavorano da tre a sei minatori; ci sono poi gallerie più strette dette lava dove occorre trascinarsi carponi per centinaia di metri nel fracasso dei cingoli e le rotaie che scorrono a qualche centimetro dal viso e dalle mani. A un certo punto tutto finisce e si esce neri di carbone e muti di fatica.

I minatori hanno due spogliatoi, uno per “l’abito della miniera”, l’altro per quelli della vita. Al centro si è nudi sotto ai getti d’acqua bollente. Devo entrare là dentro, cogliere quell’istante di vita sospesa. Ascolto l’acqua scrosciare tra risa di uomini. Un’altra soglia. Adesso o mai più. Batto tre colpi sul vetro smerigliato, c’è un improvviso silenzio; gli occhi nascosti, fissi dietro al visore, spalanco la porta. 

A Donetsk abito a casa di Nikolaï Grigorevitch, un capo miniera che tutti i giorni esce la notte e torna all’alba, parte all’alba, e rientra la notte. Galïa, la moglie passa le giornate a cucinare per tutti i minatori che vanno e vengono a tutte le ore. 

A casa per lavarsi c’è un rubinetto da dove cola un filo d’acqua fredda, fuori, accanto alla pianta di lamponi, sovente allora si va a fare la doccia allo stabilimento con le altre donne: bianchissime, ridono sotto l’acqua fumante, poi s’asciugano con gran vigore e truccatesi con la massima cura escono a scherzare nel cortile con gli uomini. Il giorno della mia partenza con gran cerimonia Galïa mi consegna un foglio con la ricetta dei cetrioli in salamoia.

DELLE ARMI

Sono passati diciassette anni dal giorno in cui ricevo la seguente comunicazione da Aubagne: oggetto riferimento fax: 06-01-1995. Facendo seguito allo scambio verbale, confermo accordo per la realizzazione delle campagne fotografiche secondo il planning proposto. Trasmetto di seguito la lista dei vaccini necessari all’ingresso nei paesi dove si trovano i reggimenti della Legione Straniera: Tifo / D.T.P. / Febbre Gialla/ Meningite / Epatite A / Epatite B. Per la Malaria, data la vostra probabile esposizione a lungo termine, verrete informata sulla procedura preventiva. Auguro buona ricezione pregandovi di accogliere l’espressione della mia considerazione. Grado, nome, firma. L’Ufficiale di Comunicazione della Legione Straniera

Passa un mese, Parigi, Ministero della Difesa: il Colonello firma un documento «Voilà Madame, arruolata per dieci mesi » poi facendo scivolare un cartoncino rettangolare nella busta che mi consegna aggiunge « Prima di andare a incontrare il Comandante della Légion, imparatelo a memoria». Esco sul Boulevard, ancora non ci credo. Tiro fuori il cartoncino, lo rigiro tra le dita, è il Code d’Honneur du Legionarie.

Ma che cos’è la Legione Straniera? Cento dieci paesi rappresentati, tutte le etnie, ogni dimensione umana, sociale e culturale, l’accento di tutte le lingue nel francese che imparano. Il képi bianco, l’anonimato, i canti, la cadenza di marcia di ottantotto passi al minuto; la rinuncia temporanea alla propria cittadinanza e allo statuo giuridico-civile del paese d’origine. La prima ferma di cinque anni è un taglio netto con chi si è e tutta la vita fuori.

La storia comincia a Aubagne, non lontano dalla montagna Sainte-Victoire. I volontari sbarcano alle cinque del mattino da un camion militare che arriva dalle sezioni di Parigi o Strasburgo; una porta si spalanca in una sala vasta e bianca con il soffitto basso e si richiude sul passato. Senza eccezione tutti gli effetti personali sono confiscati. Denudati, scalzi sulle piastrelle indossando quell’indumento ultimo che, declinato dal tanga ai mutandoni in lana passando per lo short di microfibra sino al boxer inglese con le iniziali ricamate, rivela più di quanto occulti, i candidati, le mani davanti al pube, girano attorno inquieti occhi lustri evitando gli sguardi. Poi ognuno riceve il suo numero d’identificazione e un pacco d’indumenti. Qualcuno, all’ultima istanza di un processo inconsapevole, sublima una catarsi, certi, malediranno il soffio di ogni respiro. 

Nel centro esami psicoattitudinali sfoglio il fascicolo dei test statistici. Estraggo una trentina di pagine dove sono tratteggiati degli alberi di diversa specie. «Il candidato riceve le tipologie degli esemplari; guardate qui è tutto tradotto in diverse lingue». Leggo le istruzioni: Scegliere un solo tipo di albero e ridisegnarlo. Pini e Palme non sono ammessi. Chiedo di vedere la sala esami: dita bianche e lunghe, le unghie curate tracciano esitanti una quercia improbabile. Un’altra mano, reticolata di venuzze azzurre s’immobilizza a mezz’aria dinanzi a una radice che sorge solitaria al centro dalla pagina. Accanto, tra le dita di un arto vigoroso, una matita corre decisa, in pochi segni ben netti emerge un possente baobab. Tutti tacciono concentrati. Con un cenno degli occhi il sergente mi chiama fuori – «Quegli alberi là dentro sono come questi uomini, il caso riunisce qui un strana foresta. In queste prime tre settimane, sono selezionati i profili atti a integrarsi e quelli destinati al rinvio. Ci vuole gente ben solida».

Marzo 1995 Libreville, Gabon: Pedro mi tende la destra e schiva lo sguardo. E’ il primo Legionario che conosco. Qualche minuto dopo si parte verso la foresta; Pedro guida un fuoristrada militare e parla poco. La jeep sobbalza sul terreno ineguale, per un tempo che si dilata a una misura indefinita, oltre i vetri scorre un paesaggio di scuri grovigli. Non oso fare domande, s’impara che le domande qui è meglio non farle. Nei mesi che seguiranno, Pedro lo ritroverò tre volte, ognuna con un nome diverso. «Cinque ore e quaranta sei primi» annuncia spegnendo il motore. Due camion militari sostano a bordo pista. Una trentina di Legionari posano in gruppo vicino a un grande cartello bianco. Si stanno fotografando. 

Ci avviciniamo affondando nel fango. Leggo: a grandi lettere nere – QUI ATTRAVERSATE L’EQUATORE – sotto, in rosso carminio le distanze delle città del mondo, Roma: 5000 km ; Parigi : 6000 km ; Londra : 6500 km Mosca: 7600 km ; New York: 10300 km ; Pechino: 12500 km ; Tokyo: 14400 km… 

Un metro, un passo. Sono nell’altro emisfero: è la prima fotografia di questa storia. 

Quattro giorni dopo alle 3h45 è prevista un’ultima séance sulla pista di addestramento in foresta equatoriale. Colano vent’otto minuti di piroga nella foschia di una palude – «Signori, non possiamo avanzare oltre. Si sbarca qui.». E’ l’alba. Immersi sino alla vita nell’acqua nera si procede tra le mangrovie; una nuvola d’insetti accompagna i movimenti.

Stremato, coperto di fango, il plotone alle nove è di ritorno a Libreville. La riga in parte perfetta sui capelli fradici di sudore, un giovane tenente, che ha tutta l’aria d’esser appena uscito da Saint Cyr, il tono marziale, la voce di ragazzo ingiunge «Avete venticinque primi per prepararvi, poi di volata all’aeroporto». Giro la chiave, lo chauffeur, il motore acceso, mi aspetta sul piazzale. Guardo un istante il n°10 inciso sulla placchetta d’acciaio; sono passati sei giorni. Un aereo a eliche rulla sulla pista destinazione Bangui, Centrafrica. 

Corsica, Francia, aprile 1995. Apro gli occhi, soffia un vento umido e forte, guardo nel buio. «Non dormite? Sigaretta?» L’orologio segna le tre. Fumiamo. Si aspetta. L’intermittenza di un punto di luce affiora in mezzo al mare – «Ecco laggiù, li vedete?» Immerso nell’oscurità, cerco d’indovinare l’espressione del volto di quest’uomo che non conosco. Il binocolo in mano, a gran passi sulla sabbia dura, fruga l’orizzonte. «Stanno passando il capo proprio adesso, a occhio un miglio da dove sono stati paracadutati stanotte…» – Ora vedo gli occhi scuri fissare un punto preciso, al largo della costa: «­­ –Tanto come toccano terra hanno ancora da farsi cinque ore di marcia …». Mancano quattordici ore al termine della Synthèse–48h, un brevetto che pare un rito di passaggio.

Al buio, su questa spianata battuta dal vento, l’odore delle alghe gettate sulla sabbia, invade il mio respiro. Il mare disegna dei semicerchi di schiuma sulla riva e poi li cancella. 

Fine Giugno 1995, alle 11h34 il Battaglione francese sbarca sulla banchina di Plocé in Croazia. Seguono giorni di attesa negli hangar del dock. Sotto l’altissima volta metallica la notte leva un’onda che respira nel sonno di mille-duecento Legionari. La missione questa volta è la guerra. Non ci sono notizie e le ore una sull’altra cadono sui giorni immobili. All’improvviso l’inesorabile spalanca una prospettiva a fondo perduto: il contingente smobilita e si lascia la Croazia con l’orizzonte sul mare. Otto in fondo a un blindato, un casco di due kili e l’antiproiettile di dodici, undici ore di trasferimento cristallizzano nell’incoscienza la pista “logistica” di Trebisevo. La sera il campo è levato nell’erba alta di un prato verdissimo. L’indomani durante la prima marcia di ricognizione, raccolgo dei fiori accanto a un campo minato. Trentadue ore dopo, lasciati i fiori in un bicchiere, riparto. Mentre salgo su un altro blindato qualcuno grida «Dovete tornare quando rullano i tamburi; tornare lassù!».

Due giorni dopo sotto la pioggia equatoriale, due camion militari risalgono la pista che taglia le colline di una foresta. Dalla panchina di legno guardo la terra rossa bagnata scivolare sotto le ruote. Un Legionario giovanissimo domanda «Ci siete stata in Bosnia? Non è incredibile come la pista di Regina somigli alla “logistica” di Trebisevo? Ma sì, davvero tutto preciso, identico, colle palme al posto dei pini. Tanto là o altrove, noialtri legionari siamo ovunque lo stesso!»

Settembre 1995 Bosnia Erzegovina, Monte Igman: sono di ritorno, sotto il cielo livido, il campo è uno sterro scosceso di fango nero. Scorgo il bouquet, seccato e intatto sul tavolo del comandante. Come in giugno la seconda missione in Bosnia precede di qualche giorno la seconda in Guyana, immediatamente successiva. Non è una coincidenza: prima di ripartire per Regina, sono stati raccolti tre pugni di terra in un contenitore di cuoio, il colonnello A.L., Comandante del contingente lo mette tra le mie mani con un’impercettibile velatura della voce «c’è una missione per Voi: consegnare la terra del Monte Igman ai camarades del Terzo». Durante quarant’otto ore trasporto quel pezzo di suolo di guerra sino a Regina; al mio arrivo al campo un plotone sta aspettando già schierato: eseguo la consegna. Nell’aria della foresta il Comandante, capitano C., depone il contenitore sotto al tricolore francese, poi sull’attenti saluta quella terra in un altro emisfero. 

N’Djamena, 14h15 Dicembre 1995. Dalla finestra socchiusa il sole invade la stanza; una polvere luminosa ricopre ogni cosa. L’ufficio è deserto e da un tavolo ingombro d’incartamenti, la sedia del colonnello C.B. mi guarda vuota. Attendo in piedi. Qualcuno apre la porta. Avanza lentamente. Lo sguardo fa il giro della stanza. Gli occhi sfuocati per una frazione di secondo incrociano i miei. Cucito sull’uniforme, leggo il nome del comandante del battaglione. Abbozza un saluto formale, poi si gira e come se fosse altrove la bocca articola delle parole: «Abbiamo perduto un uomo. Questa mattina il brigadiere-capo Brabakaran è deceduto durante una missione. Una mina. Sposato. Due bambini». Segue un silenzio. «Il vostro programma subirà qualche variazione. Sarà uno strano Natale. Benvenuta tra noi».

L’indomani dopo la veglia assisto alla funzione funebre senza macchine fotografiche; osservo davanti a me i crani rasati dei Legionari e i profili di quelli schierati nelle file accanto. Qualcuno serra le mascelle. 

E’ il primo Natale che trascorro lontano; poi penso al brigadiere-capo Brabakaran che non ho conosciuto, penso al Natale della sua famiglia in Francia e a questa strana famiglia di uomini riunita qui. 

Seguono altri giorni nel forte quadrato di Abéché in mezzo al deserto, settanta due ore, le ultime di dieci mesi indicibili. 

Il Transaal decolla, a volo radente effettua un secondo passaggio sopra la pista. Delle mani salutano, poi scompaiono dalla vista sulla terra che si allontana.

DELL’ARTE E DELLA MORTE

Autovía de Andalucía, Autovía de Extremadura, Autopista del Sur, Red de Carretera del Estado, Ruta de la Plata, Ruta del Toro. Strade, autostrade, sterrati, girano, salgono, scendono, corrono innanzi. Un nastro grigio, nero la notte, al centro s’inseguono rapidi segmenti bianchi, poi una linea continua, ora fugge nel retrovisore. 

Rive di mare, il bordo di un fiume, colline, l’ombra delle sierras; terre di pietra e città bianche che attraverso sempre vuote, calcinate di polvere nel soffio infuocato dell’estate: Sevilla, Sanlúcar, Jerez, Higuera, Trebujena, El Bosque, Segovia, La Algaba, Alcalá, San Roque, Antequera, Aracena, Tarazona de la Mancha, Almería, Linares, San Sebastián de los Reyes, Villaluenga del Rosario, Andújar, Salamanca, Piedrabuena, Torralba de Calatrava, Guadalajara, Talavera, Algemesí, Málaga, Pozoblanco, Abarran, Zafra, Hellín, Segura altre ancora. Guido ogni notte. 72.000 Km in cinque mesi. 

L’orizzonte lontano, il cielo compatto, teso e secco. Alte luci accecanti, zone d’ombra impenetrabili, livelli di contrasto smisurati, non facile in bianco e nero senza spezzare la curva tonale del visibile; in questa Spagna di contraddizioni lo sguardo registra frammenti inconciliabili e indissociabili frantumi. 

Dal fondo della memoria emerge un ricordo: Carnevale 1969, mio fratello Alessandro, quattro anni cammina vestito da torero accanto all’orlo della sottana della nonna lungo una passeggiatadella Riviera. 

Adesso qui, su questa gradinata sto per assistere per la prima volta a una corrida (ne vedrò settantadue). Che cosa sta succedendo? L’aria si muove dentro un’agitazione calda e pervasiva, sensuale; qualcosa di colorato, rumoroso e assieme raccolto, anzi nascosto. Tutt’attorno, donne colle bocche rosse di trucco, parlano, ridono, camminano vistose. Là dove intendo entrare le donne restano fuori. 

Dinanzi a una corrida nessuna cosa è quella che appare, nessuna evidente, nessuna scontata: né quanto s’immagina, né ciò che si vede di quanto si guarda. Inalienabili codici di un’altra civiltà, questi segni non li posseggo. Guardo cosa gli occhi vedono: al centro dell’arena, perpendicolare alla sua ombra il torero leva dal suolo un disegno trasparente; i gesti, precisi o scomposti, scompaiono nel momento in cui si compiono. Gli occhi vedono un mosaico di passi cancellarsi l’un l’altro in una danza sfrenata. Sole certezze sull’istante che avviene, la solitudine e il terrore di ogni torero dinanzi alla carica di un toro di settecento chili, tecnicamente dinanzi alla propria morte. L’esistenza tutta gira sul cardine di quell’attimo. Ortogonale all’orrore di quella scheggia di tempo, il torero si appropria l’inconsistenza dell’aria per imprimervi una forma perfetta che il vento soffia via. Senza neppure cercare di spiegarmi questa misteriosa trascendenza e di là da ogni retorica, voglio vedere quanto è invisibile di ciò che si vede, che cosa c’è dietro, prima, dopo e tutt’attorno. Vedere che cosa a vent’anni intaglia nei tratti del volto di un torero una maschera divorante d’irreversibile vecchiezza.

DEL FUOCO

Bronx N.Y.C. Aprile 1997 – 05h14. Tace la voce del fuoco. Il tumulto si dissipa tra le grida sparse, l’acqua che scroscia nel rumore delle scale meccaniche ancora in funzione, i ferri che frugano i soffitti sfondati e i vetri che continuano a precipitare infrangendosi sull’asfalto. Figure concitate muovono nel buio, i gesti febbrili, i volti lividi sotto al casco di cuoio. Nella notte che recede, sventrato, un palazzo di sei piani disegna nel cielo un’ossidiana irta di guglie. 

Qualcuno avanza a gran passi, la testa gettata all’indietro; irriconoscibile, quest’uomo che ora parla forte e gesticola dinanzi a me, lo conosco. Pare impossibile sia lo stesso che per giorni ho visto andare e venire con le bretelle attorcigliate attorno ai fianchi, il mug con il caffelatte stretto in pugno. Sebbene le chiamate si susseguano incessanti – sino a ventidue su ventiquattro ore –, in eterna attesa, la vita del firehouse è un’ansa cava nello spazio-tempo. Un codice alfanumerico telegrafico identifica la natura di ogni chiamata: esplosione. Suicidio. Malore. Rissa. Sparatoria. Incidente stradale… Talvolta compare una seconda specifica – casualties – vittime. Fuoco, più rara, è accompagnata dal codice che ne definisce l’entità. Dopo le catastrofi, scesa la tensione dello sforzo, l’adrenalina della paura, capita che alcuni si sfrenino in aneddoti e risa fragorose nel bel mezzo della strada. Scandalo. Piovono lettere di protesta sulla città: «come possono questi mostri scherzare sulle nostre disgrazie!». 

Il fuoco dei pompieri non rifulge nello sfarzo delle fiamme, un’oscurità senza fondo è il tetro fondale di quel teatro e le esercitazioni di orientamento e coordinazione motoria con la maschera cieca, costituiscono il fondamento della formazione all’Accademia del Fuoco

Di generazione in generazione, si è pompieri per tradizione o per vocazione: lontano dai fasti, in una misteriosa grandezza d’inconoscibili miserie, alla fiamma dei giorni.

FORESTE / DEL FUOCO II

Una popolazione carceraria di centocinquantamila uomini sull’estensione del territorio, in California esiste un programma di riabilitazione destinato ai prigionieri a basso rischio. Trentatré Conservation Camps coinvolgono sino a duecento “pompieri-forzati” per campo. Le “prigioni senza mura” costituiscono parte integrante del dispositivo operativo di sicurezza e protezione ambientale, per incendi forestali, terremoti, alluvioni, inondazioni e altre calamità che assediano questa parte degli Stati Uniti. 

Un dollaro al giorno tutti i giorni, un dollaro l’ora durante le operazioni. Un albino nero, gli occhi socchiusi, parla sottovoce seduto sulla branda. Gli manca l’anulare della mano sinistra. «All’inizio quando sbarchi a Susanville sei un poveraccio. Da un giorno all’altro in mezzo a delinquenti veri, ogni ora che passa sei peggio di prima. Ti dici che non uscirai mai più». Nel 1997 il carcere maschile di Susanville conta più di duemila prigionieri. Qui, due volte l’anno si compiono le selezioni per il programma di riabilitazione. M.R., un veterano della massima sicurezza, mi accompagna. Sul volo da San Francisco non smette d’intessere i racconti delle sue gesta carcerarie. Atterriamo a Susanville alle 07h45 nell’aria tagliente. Il direttore del penitenziario mi squadra e porgendomi un documento, ingiunge di leggerlo con la massima attenzione. Dovrò firmarlo. Leggo la lista interminabile dei Diritti del Prigioniero, la minima infrazione è penale. In fondo alla terza pagina, a lettere capitali c’è una clausola in neretto: «qualora il visitatore incorresse in un sequestro all’interno della struttura non sono previste procedure di soccorso». Appoggio il documento sul vetro che copre la scrivania, lo firmo e sollevo lo sguardo. Il direttore mi sta fissando. Anticipa la mia domanda – «Come misura preventiva si tenga ai bordi del quadrilatero centrale, sempre sotto tiro dalle quattro torrette. Sconsiglio di sconfinare verso altre zone. La sua visita è annunciata e domani saranno tutti là fuori… M.R. avrà cura di indicarle i gruppi che hanno firmato le liberatorie e i settori da cui tenersi alla larga… Eviti in tutti i modi il contatto ottico diretto con i prigionieri.»

Nel brivido di un ricordo rivedo chiudersi con un colpo secco la griglia d’acciaio dell’entrata del Lager Obukhovo Sezione Criminale Maschile, San Pietroburgo 1994. 

L’indomani alle 13h30 seguendo una competizionemi accorgo che siamo vicinissimi alla zona “proibita”. Ondeggia una strana agitazione. Procedo. E’ un attimo. Del fuoco precipita da due finestre, per una frazione di secondo vedo qualcosa che non avrei mai voluto vedere. Un walkie-talkie in mano, M.R. mi tira di colpo per un braccio. Serrando le dita in una morsa sibila «Vieni ora – allunga il passo, non fermarti e non girarti per nessuna ragione!». 

Due giorni dopo dentro a un van blindato si procede attraversando alte colonne di fumo sopra uno sterro riarso. Tra le mani calzate di cuoio carminio i forzati stringono gli attrezzi: seghe rotanti, accette, picconi… Sul sedile anteriore con il tenente, M.R. è di spalle oltre al vetro. Un rosso basso e robusto con la canna del piccone batte dei colpetti misurati sul pavimento metallico. Sorride e mi guarda. «Che c’è? Dì che ci hai paura. Un portoricano, la barba che copre parzialmente il volto sfregiato, interviene – «Quando si arriva nei posti con ‘sti arnesi non è che faccia bella impressione. La gente guarda da dietro i vetri». Il ciuffo sugli occhi, un biondo interrompe – «È che là fuori nessuno ti considera. Qui è tutto il contrario. Ogni cosa è importante qui. Che se uno di noi sbaglia, qui siamo tutti fregati. Qui per la prima volta capisci che anche tu sei importante per qualcuno». Ora tutti vogliono parlare – «Parlo io» taglia corto un gigante con le sopracciglia spioventi sugli occhi miopi «quando noi si finisce un’operazione, ci crede ci ringraziano? Si passa per i paesi e mettono fuori dei cartelli: GRAZIE RAGAZZI. Proprio così. Scritto grande. Qualcuno viene fino fuori a salutarci. Di lontano però, che mica li lasciano avvicinare. “Grazie” a me nessuno me l’aveva mai detto» Poi tutti tacciono. 

Gli occhi fissano qualcosa nel fumo oltre le sbarre rosse del finestrino, il furgone rallenta, siamo quasi arrivati. 

Da un angolo si leva ancora una voce che articola con voluta cura ogni parola. «Vede, mi permetta di dirle, qui non c’è nessuno che si sogni di fuggire. Questa esperienza, capisce, è un’occasione unica. E’ che succede qualcosa. Sai di essere migliore. Non degli altri, migliore di te.».

DEL MARE

Mallaig, Scozia, 6 marzo 1999. Sotto i rovesci di grandine che tempestano la banchina e i ponti delle barche, il vento disperde il grido dei gabbiani in un volo incerto. Nell’aria l’odore di corda e catrame. Normalmente il porto è un continuo via vai di urla, un fracasso di ferraglia che sbatte, blocchi di ghiaccio, carrucole e bidoni che imbarcano e sbarcano, seghe e motori che raspano nel rumore della risacca, incessante contro il molo. Stamattina il porto è deserto. Dirigo i passi verso il centro del villaggio. La missione è un edificio celeste di legno dipinto, con un tetto spiovente, rosso lampone. Dietro ai vetri appannati, uno stanzone luminoso che sa di cucina ogni domenica accoglie una folla festosa. 

I pescatori, il berretto di traverso, trascinano per la sala gli stivaloni bagnati lasciando sul linoleum grandi chiazze d’acqua. Giovanotti dagli occhi luccicanti lanciano sguardi sfuggenti da dietro le ciglia chiare. Le guance vermiglie, ragazze mingherline si sbandano tra le donne un po’ grosse, ingombre di bimbi piagnosi e infagottati. E’ tutto un atteggiare di spalle, un guardarsi con l’aria di niente, un continuo bisbiglio tra le risa smorzate. Tutto un mondo che qui comincia e finisce. In settimana i pescherecci escono prima dell’alba intorno alle quattro. Tra il rollio della chiglia e il tuono del motore si dorme un poco durante il primo tragitto. Poi le giornate corrono sulla cadenza delle onde, la lontananza dell’orizzonte, il thè nero che si beve fumante. Ogni levata rovescia sul ponte un mobile tappeto screziato in un vasto rimestare di pinne opaline, chele, branchie e creste puntute. Tra le code dentellate, grossi scampi scivolano impacciandosi nei filamenti di scomposte meduse mentre i granchi bianchi s’intraversano sul dorso delle razze, punteggiate di nero come leopardi. Rosate capesante colano una bava vischiosa tra le aguglie azzurre in un agitarsi di tombarelli che spuntano sparsi tra le aringhe e le sogliole e ancora altri pesci, pallidi, vetrosi e mai visti. Un molle risucchio bagnato che inchioda lo sguardo come un quadro di Pollock.  

Nei pescherecci Ring-Net la cabina sta sul fondo della chiglia, a poppa, accanto alla sala macchine. Quando le onde prendono la barca in un maglio convulso, chi non ce la fa si corica in questo ventre impestato di nafta, dove il beccheggio è più fondo e il rumore infernale. 

Le cuccette sono esigue cavità, longitudinali alle pareti. La testa sul cuscino freddo, si chiudono gli occhi allungando le gambe sotto un ammasso di coperte umide. Oltre la cortina sintetica, la luce rimane accesa. Gli occhi spalancati si resta così. Poi finalmente, ci si addormenta come precipitati dentro una tomba. Le ore si sfaldano. 

D’un tratto il motore cambia tonalità lacerando l’incoscienza. E’ il segnale, un’altra levata. 

Oggi, per la prima volta dopo quarantadue giorni, il mare è un cerchio luminoso. Sull’alba immobile, si levano lontane scogliere verticali. Al largo conto sette pescherecci che trainano sulla linea dell’orizzonte. Donald, leva l’indice e nomina a mezza voce le isole Ebridi «Barra, Eriksay, laggiù Coll e Tiree, qui a destra Skye e davanti a noi Uist Sud, che l’altro non si vede.» 

Rallento, infilo la rotonda a mano inversa. Talvolta ho l’impressione che la somma delle partenze non corrisponda al conto dei ritorni, i frantumi degli incontri dispersi, le strade che non ritrovano i passi. Imbocco lo svincolo in direzione Aberdeen. Accelero. 

Lerwick Shetlands, 30 marzo 1999. Qui quella nozione di comunità trovata a Mallaig è scomparsa. La gente ringhiosa se ne sta muta per i fatti propri. E’ tutta una storia complicata e poco edificante di gelosie e rancori per la compravendita dei permessi di pesca e pesci che non potrebbero essere pescati, rigettati a mare, morti. Qualcuno mi aveva parlato dei clonedykers, fosche navi-fabbrica, generalmente russe. 40/50 uomini imbarcati, sei mesi di fila senza toccare terra. Si dice talvolta compaiano all’ancora sullo sfondo della baia di Lerwick. Lawrence è l’agente che “tratta”con i russi. In canottiera nel cortile del cantiere, la voce esala il fumo dell’aria fredda. Lawrence parla una lingua indecifrabile. Tra diverse gesticolazioni capisco «…Dopodomani …60 metri. …Moormansk.» Il nome russo del peschereccio lo scrive in un angolo della pagina di un quotidiano, lo strappa e me lo tende: Leonid Novospaskiï leggo. Sempre gesticolando ricomincia a urlare «Stanotte …Parlo, Comandante …Io parlo» indica la sua bocca che si muove «…Capito?» Poi piazzandomi davanti agli occhi due dita aperte a V. «Due bottiglie – 2 – Scotch». Annuisco. 

9h45, 24.8 Fahrenheit / meno 4° Celsius. Uno Zodiac salta sulle onde tra gli spruzzi ghiacciati. Ci avviciniamo raggiunti da un odore che rinuncio a descrivere. A poppa di un peschereccio fuori scala una rampa arrugginita si spalanca come una gigantesca bocca. Lawrence si sbraccia agitando le bottiglie. Qualcuno, la testa dentro un colbacco nero, lancia una cima di canapa. Ci arrampichiamo su per una scala di corda. Si scivola. Poi finalmente si emerge sul ponte. Qui le parole mancano. Manca il respiro per dire la scena dinanzi ai miei occhi. Più tardi di fronte al bortsch color sangue guardo i vasetti di terracotta accanto alle finestre sigillate. A spasso per tutti i mari, dentro quei vasi c’è la terra di Russia.

Isola di San Pietro, Carloforte, Italia, Aprile 1999. 

Uno scoglio verde a Sud-Ovest della Sardegna, San Pietro è una colonia. Sul traghetto che congiunge Portoscuso (Sardegna) a Carloforte, capoluogo in isola di San Pietro, Giuliano, primogenito della famiglia Greco, signori della tonnara «La Punta», mi spiega che cos’è la mattanza dei tonni. 

Parla nel vento che sparge sulle onde il profumo inconfondibile, secco e amaro, del mirto. «C’è il Raïs, capo della ciurma di mare: i Tonnarotti, i “matador” dei tonni, che la tonnara qualcuno la paragona alla corrida. Oltre alla Musciara, la barca del Raïs, la flotta della mattanza è composta di diverse imbarcazioni: i Palischermotti, le Bastarde, il Barbariccio e un Vascello

Ci sono tonnare d’andata e tonnare di ritorno. La nostra è d’andata, ossia è attiva al passo di uscita quando al mese di maggio, i tonni gravidi, seguendo le correnti migratorie, nuotano in direzione Est; la tonnara è un sistema di stanze sottomarine, sulla rotta del loro passaggio; immaginati delle murate verticali di rete, tese dal fondo alla superficie del mare. Dapprima i tonni incontrano la coda, una murata tirata perpendicolare alla costa che li induce a virare verso la bocca della tonnara. Entrati, un sistema di chiuse dette porte, si aprono e richiudono “a ventaglio” mentre i pesci passano da una stanza alla successiva, finché raggiungono l’ultima, detta la morte. Questa, a differenza delle altre stanze, ha un fondo e come tutto il sistema si leva a braccia». 

Arrivati allo stabilimento attraversiamo un capannone tra montagne di reti ammucchiate. Cerco di non inciampare nei cavi e le cime di canapa allungate in tutte le direzioni. Nel cortile, al centro di un edificio color sabbia, si attorcono filacce di juta, trefoli di ramia e matasse di filo. Una fila di braccianti in piedi sta cucendo nel controluce della sera. 

Il lavoro in mare comincia e finisce sempre nel buio e le settimane dei Tonnarotti non conoscono sabato né domenica. Gli uomini di Portoscuso e quelli di Carloforte sono tutti anime di uno stesso padrone. Anche se lavorano assieme sono ciurme ben distinte e in tutto differenti: “razza”, tradizioni, credenze, linguaggio, tecniche e ritmo di lavoro e metodo di applicarlo. Sardi, è questione di fierezza atavica, il possesso del mare della loro terra. Carlofortini, è l’orgoglio di chi sente un dovere esercitare la propria supremazia sulla terra conquistata. Il mare, con i suoi pesci condivisi li unisce e irrevocabilmente separa. 

Ci sarebbe molto da dire sui tonni. In bianco-nero, il sangue chiama qualche parola. Un sangue scuro che tinge le mani, macchia le unghie e passa sotto la pelle. Colloso quel sangue appiccica capelli e vestiti. Quel sangue oleoso quando si levano le reti fa scivolare sui bordi fradici delle barche e, dalle acque morte del Vascello, emana un odore che prende la gola. Al sole, quando secca, quel sangue compone sulle lastre di pietra della banchina ritorti serpenti ramati che si confondono con la ruggine.

Sicilia, Portopalo di Capo Passero, Italia Giugno 1999. 

I remi tagliano l’onda, sfilano lungo i fianchi neri della musciara immergendosi con una leggera torsione appena sotto al filo della superficie. L’acqua si apre sotto la chiglia che la solca. A picco del cielo senza vento ondeggia intatto lo smalto del mare. L’orizzonte nella calura si stempera in una linea indecisa.

In piedi a poppa, calzato di mocassini di cuoio intrecciato, dritto come un pioppo Don Francesco Rosario Asaro di Castellamare del Golfo, è il Raïs. Sollevata la paglietta, ravvia i capelli immacolati con le dita. Don Rosario incarna l’autorità di chi comanda; il secondo, orbo del destro, glauco come un opale, parla per lui colando uno sguardo traverso sul bronzo della voce. Qualche anno prima, risaliti dalla Sicilia, loro avevano armato la tonnaradi Carloforte. Don Pietro Bruno di Belmonte, con un’interminabile lista di titoli e onorificenze è qui innanzitutto il Signore del Mare. La rimessa in funzione della tonnara di Capo Passero è per lui una sfida disperatamente romantica alla fine del suo secolo; un grand jeu come lo definisce, che da’ lavoro a una sessantina di anime e di che scommettere la gloria e l’onore del “suo” paese. Sulla punta di Capo Passero, tallone Sud-Orientale della Trinacria, lo Ionio e il Mediterraneo s’incrociano tra violente correnti, in superfice non una ruga. 

Assiomi del paradosso, come l’anima della Sicilia, la sua sanguinosa dolcezza, questo vento minerale esala dalla terra e scivolando incandescente sulle onde, tutto solleva e tutto cancella.

Ora, seduto alla tavola dove tutti si radunano per mangiare, qualcuno gesticola brandendo un coltello – «O’ ma che ciai da guardare? Eh–mangia no. …‘L pane, …le cipolle. Prendi qua». Il coltello incide la cipolla rossa e una mano coperta di una fitta peluria mi porge, stretto tra due dita, uno spicchio luccicante. Gli altri, gli occhi nel piatto masticano in silenzio. Tirato sul fieno, la bocca spalancata, qualcuno fila il respiro del sonno. Nell’archeggio delle cicale, fuori della frescura di queste pietre la terra esala un calore carnale. Le canne si rizzano sparse trasalendo nell’ora immobile. Oltre, più nulla. Il mare tutto attorno è uno schermo viola sotto il cielo di fuoco.  

I tonni non vennero mai. Mai tanto che io fui là. Domani riparto e anche se posso indovinarlo, non conoscerò l’epilogo di questa avventura. Senza quanto accaduto, malgrado nulla accadesse, forse non avrei mai compreso niente di quanto è stato o non è mai stato. A Pirandello la risposta.

DEL MARE II

N.R.P. Sagres, Lisbona Portogallo, maggio 1999. 

Oggi comincia il viaggio – Lisbona, La Coruña, Anversa, Rouen, Azzorre – della nave scuola Sagres tre alberi della Marina Portoghese. Effettivo di bordo: centottanta-cinque imbarcati. Tre mesi di navigazione. Questa mattina, non c’è quasi nessuno. I pochi in servizio strappano le ultime ore a terra. Sul ponte, incontro il quartiermastro dell’albero di maestra. Sbarcando dichiara dalla passerella «Vado a fare un figlio a mia moglie e torno!» 

Scandito dai fischi ascolto questo codice sonoro che da oltre un secolo, regola le manovre di ventitré vele auriche e ogni azione della vita di bordo per due centinaia di uomini. 

N.R.P. Sagres, 22 luglio 1999; 45°28′ 0 N, 0 8°44’E

Nel ripetersi di giorni tutti uguali, il cielo alza e riabbassa il suo cerchio d’orizzonte. Da giorni non s’incontra più né un insetto né un volatile. In questo ventiduesimo giorno di luglio si naviga su lunghe onde metalliche sotto una volta di nuvole basse squarciata dai raggi del sole. Di colpo un’agitazione pervade la nave. L’equipaggio si pressa contro il parapetto a babordo; si passano i binocoli: tutta invelata una nave interrompe finalmente l’arco del mare. Paralleli e lontani sulla medesima rotta i due velieri procedono in direzioni opposte. Qualcuno grida: Amerigu Vesputchi... Infine, le murate fianco a fianco a due miglia di distanza, Amerigo Vespucci chiama Sagres con il morse luminoso, Sagres inalbera un nastro di bandiere e risponde trasmettendo il proprio indicativo internazionale nel codice dei segnali marittimi. Nel laconico balletto che declina il ventaglio dei saluti previsti in tali occasioni, si verifica un “fuori programma”. Il comandante mi fa chiamare in sala comando e mi chiede di trasmettere in Italiano il seguente messaggio «Il comandante di Sagres saluta il comandante dell’Amerigo Vespucci e il suo equipaggio». Schiarisco la gola e non senza emozione, sfodero la mia migliore dizione. Trascorrono i secondi e sotto quel cielo lontano, ci raggiunge la risposta di una bella voce italiana. Non traduco per gli ufficiali immobili tutt’attorno «Dal Comandante dell’Amerigo Vespucci Buon Vento a voi Sagres». Fu tutto; tutto e nulla in quelle poche parole. 

Un marinaio gira un ultimo sguardo al veliero che scompare, poi sputa in acqua e si allontana rialzando il bavero del tre quarti

Sospesa a un’alternanza di cieli la nave è un organismo vivente che sulla dilatazione del tempo vibra nell’universo di ogni individuo imbarcato – cento ottanta cinque volte uno. Rosei cadetti impacciati e alteri manobras scolpiti da fasci di muscoli scuri, volteggiano come acrobati appesi alle sartie; intere notti addossati alla drizza di prua fissano il divenire delle tenebre; gli occhi scintillanti, si slanciano su per le scale d’acciaio in cima agli altissimi alberi; scompaiono nell’incoscienza in fondo a una branda tenuta dalle catene nel beccheggio dell’Oceano. E oggi alle Azzorre mancano ancora due settimane. 

La Campana di Bordo suona sulle navi soltanto in tre casi: affondamento, incendio, uomo a mare; il 29 luglio 1999, alle 00h27 a 38°26’4 N / 0 19°19’8 sull’undicesima notte del viaggio di Sagres tra Rouen e Punta Delgada quella campana batte i suoi rintocchi impensabili. La procedura prevede l’immediato raduno sul ponte. Così come si è, giù dalle brande, cadetti, marinai, ufficiali sottoufficiali, meccanici, carpentieri, telegrafisti, cuochi, radiotrasmettitori, mozzi, sguatteri… – tutti – si precipitano in coperta.

Nuno Miguel dos Santos Marques – anni 25, dal 2 giugno 1997 effettivo N.R.P. Sagres – durante il quarto notturno 00h00/04h00 precipita a mare dalla seconda verga di mezzana. Non avendo agganciato il moschettone ai cavi di sicurezza, testimoniano due compagni, perde l’equilibrio e cade nel buio. Dapprima colpisce di dorso il parapetto tribordo alla base delle scale metalliche indi la murata inferiore di testa; scomparso sott’acqua, probabilmente trascinato verso il fondo fuori conoscenza, qui stimato mt 4.200 di profondità.

D’un lampo le vele amarrate, tutti i fari accesi, lanciati i razzi e quattro boe luminose, due Zodiac e due scialuppe sono calati in acqua. Si cerca tutta la notte sul vasto sommovimento del mare. All’alba arrivano due Hercules della Forza Aerea. Inizia a piovere. Le scarpe di Santos Marques, rinvenute, giacciono sul ponte di comando, i lacci sfatti. 

Funereo, senza vele, in un convulso beccheggio, Sagres scandaglia lo stesso cerchio di mare per diciassette ore. I cavi delle sartie sbattono laschi alle crocette, i fischi seguitano a segnare i quarti sotto al cielo dilavato. Gli occhi sull’orizzonte nessuno trova la forza di articolare una parola. Alle 19h03 suona l’adunanza generale. 

Il Comandante di Sagres si rivolge all’equipaggio al gran completo. Gli tremano le mani. «Signori, Ponta Delgada è a 400 miglia dobbiamo abbandonare il teatro di questa sventura. Alle 21h00 con una cerimonia di addio saluteremo il nostro fratello scomparso. Stasera due corvette della Marina Militare sono in arrivo dal Portogallo e saranno loro a proseguire le ricerche». A 21h00: sulla latitudine 3821’8W ai piedi dell’Albero di Mezzana l’equipaggio in equilibrio sull’attenti oscilla nella risacca dell’Oceano. Come dentro una monumentale cattedrale tre colpi di cannone sparano contro il cielo. Una tromba suona: Il Silenzio, L’Onore ai Caduti, Il Risveglio

Poi, inalberato il nero sopra al bompresso, Sagres issa tutte le tutte le vele e fa rotta verso l’Isola di Sao Miguel.

La scomparsa di un corpo non attesta il decesso e ancorché non vi siano altre ipotesi realistiche, di fatto, differenza drammatica e sostanziale, Santos Marques rimane ufficialmente un disperso.

Durante i primi giorni di viaggio avevo scattato una polaroid di tutto il personale imbarcato, riportato il numero di matricola e raccolto la firma di ognuno accanto alla propria immagine. Questa mattina il Comandante mi chiede di consegnargli la Polaroid di Santos Marques, estraggo dall’armadietto metallico la scatola blu, dove ho archiviato le immagini in ordine alfabetico. Nella fila della lettera S trovo la fotografia di Miguel. 

Rivedo di colpo l’istante in cui l’ho scattata durante una manovra; riascolto la sua voce rispondere alla mia richiesta di firmarla articolare la parola «pois» (più tardi). Estraggo la fotografia e realizzo è l’unica non firmata.

Ponta Delgada Isola di Sao Miguel, l’alba. Dopo quattro settimane in alto mare appena i piedi poggiano sulla banchina le vertigini di un furioso mal di terra mi assalgono. Provo a camminare come sul vuoto sopra una folla di ricordi. 

Ai piedi di un vulcano e di montagne coperte di fiori che si levano alte in mezzo all’Oceano, adesso qui, dove i vichi affollati sboccano tra le acque calme di un porto lontano, il mio cammino è giunto al termine. 

FIGURÆ

Scandalosa, questa immersione in bianco e nero nei margini, nei bassifondi della nostra società idolatra e narcisistica, che il glamour anestetizza e che il reale annebbia. Più che disturbante, questa indagine: provocatoria e necessaria. Giudicate voi. Questa è un’epoca da divi, campioni e people: ecco qui, invece, gruppi anonimi, volti sconosciuti, coreografie involontarie e senza étoile. Questa è un’epoca femminile, parla di uguaglianza e diversità: ecco qui il maschile nudo e crudo, collettivi ruvidi e virili, ossi duri ben poco amabili. E questo è doppiamente fuori tempo. Mai Helmut Newton avrebbe commesso una simile caduta di stile, nel bene o nel male. Astenersi paparazzi. Eccoci fuori dal contesto. Siamo al di qua. Al di sotto. Dentro luoghi in chiaroscuro, marginali e disprezzati, di cui le copertine delle nostre riviste non si nutrono e di cui i nostri giornalisti non si occupano: scantinati che le nostre società del lusso hanno perso l’abitudine di guardare, fino a dimenticarsi della loro esistenza. Mettendoci di fronte a gesti, espressioni e nudità talmente naturali che ci appaiono oscene, allenati come siamo al trucco e all’artificio, Giorgia Fiorio recupera l’angolo cieco del nostro campo visivo. E, forse, quello di una civiltà. Che cosa vediamo qui? Vediamo dei corpi. Ma non dei corpi oggetto. Nodosi, muscolosi, vischiosi, neri come il carbone. Corpi sorpresi al lavoro, in azione, mentre sudano. Non concepiti per l’esibizione o lo spettacolo (tranne un torero in posizione da matador, di una bellezza enfatica e fin troppo eloquente).

Noi tutti, in Occidente, viviamo in società piene di protesi, algide e cosmetiche, che ignorano lo sforzo fisico, perché hanno dimenticato la trincea e l’aratro, la guerra del fante e la fatica del contadino. Come ricordava recentemente uno storico del servizio militare, «il maschio adulto francese di vent’anni ha certo guadagnato una quindicina di centimetri, dal 1914, ma ha perso in massa muscolare, rusticità e resistenza». Il nostro mondo urbano, troppo urbano, che tende ad abbandonare le officine per gli uffici e delega ai suoi immigrati la cazzuola e il martello pneumatico, si dà al culto della forma e della messa in forma. Porta anche il nudo alle stelle, ma è un nudo astratto e molto lavorato, anche se non lavora per niente. Vuole il corpo levigato, slanciato e pulito, il più possibile seducente, dunque ritoccato e adattato a nuovi look. Erotico e plastico, estetizzante, perfino siliconato e plastificato. Nello sport d’alto livello come nell’esibizione dei culturisti, la telecamera coglie la performance finale, non l’allenamento, il doping, la preparazione, da cui lo sguardo viene distolto pudicamente. Il corpo ideale per il nostro tempo è bello come un fiore reciso adagiato su una carta lucida — inodore e gratuito, liberato dal suo humus di lacrime e sudore. Niente di tutto questo, qui. La carne ritrova la sua pesantezza e l’incarnato la sua serietà.

C’è di peggio. L’egolatria sfrenata che regna ai nostri giorni colloca il corpo guerriero, sportivo o desiderabile, su un piedistallo, ma a una condizione: che la sua gloria sia solitaria e nominativa. Che faccia risplendere un nome proprio, una celebrità, un mostro sacro. Qui, invece, niente campioni, nessun eroe e nemmeno podi. Il gruppo è la sua propria allegoria. Scansando idoli e icone, non imponendo nessuna polena, nessun leader o vedette riconoscibile, emergono sotto i nostri occhi corpi multindividuali. Figure collettive senza testa, in cui lo spirito del corpo fa di ciascuno il gemello del proprio vicino, suo simile e suo fratello. Ecco portata alla luce, in tutta spudoratezza, una zona d’ombra silenziosa, arcaica se si vuole, che preesiste al nostro culto per i ricchi e famosi e precede anche la grande frantumazione moderna. In queste promiscuità, dove la distanza interpersonale — l’intervallo codificato e conveniente fra due individui – non è più rispettata. Aggregati primitivi, molecole ad atomi compatti, senza gerarchia, né protocollo, strane coagulazioni plastiche, in cui si srotola al contrario la grande narrazione della modernità, che ci racconta come si sia liberata, a forza, la persona dalle pastoie collettive, come da una fatidica opaca colla si estragga una sovranità. I nostri metafisici della libertà non sono quelli dello spirito del corpo, come viene qui restituito dalla crudezza di uno sguardo al limite dello sconveniente. Quindi, un certo imbarazzo, non troppo lontano dal malessere. Non sappiamo più bene in che cosa consista un’appartenenza, in che modo si produca l’intreccio di un noi, che non è — ed è ben lontano dall’esserlo — il plurale di un io. Valutiamo ciò che l’egocentrismo e l’autocompiacimento occidentale ci hanno fatto perdere di vista, e da dove viene il nostro smarrimento di fronte al ritorno a livello planetario di tribù ed etnie. Il grande affaccendarsi comunitario che agita i continenti — tranne l’Europa — ci prende alle spalle dopo due secoli di separatismo, e noi strilliamo come aquile davanti al semplice richiamo della più ordinaria, la più immemorabile delle condizioni: il gomito a gomito, il corpo a corpo disciplinare. 

Eccolo ancora più disturbato, il nostro contemporaneo, che i riflettori ingannano a forza di abbagliare, e così perde l’aiuto delle migliori fra le nostre mitologie. Monaci in cocolla di panno grezzo e cappuccio bianco, soldati con le sciabole sguainate, in pantaloni rossi e pennacchio…Giorgia Fiorio non ha messo in scena i grandi corpi devoti dello Stato di diritto e della Chiesa di Cristo, gli Ordini dalla sublime sobrietà, le Accademie ricamate d’oro, le Magistrature in porpora ed ermellino, bensì basse caste operose. Lavoratori del mare e del fuoco, della miniera, del ring e dell’arena, sobriamente professionali, senza alcun prestigio, senza nemmeno l’aura delle gang e delle mafie, soggetti come sono a umili funzioni produttive per distrarci, proteggerci o alimentarci.

Queste corporazioni, di solito costituite, non sono gli sventurati americani degli anni bui, quelli di Walker Evans e Dorotea Lange. Non sono nemmeno i monelli sfrontati, i carbonai e i venditori di palloncini dei faubourg di Parigi, alla Doisneau. Non sono poetici, né pittoreschi. Tra la folla e la banda, tra la «vile moltitudine» e il sale della terra: questi domini segreti non abbandonano l’ordinario. Da qui, uno sguardo neutro, un lirismo freddo, che non prende le distanze dal suo oggetto, ma non cerca neppure di stregarlo o sedurlo in nome di una connivenza razziale, etnica o messianica – ein Volk o classe eletta. La foto non canta la rabbia, la guerra, né l’odio. Non è al servizio di nessuna causa con l’iniziale maiuscola. Non magnifica e non svaluta. Non è lo sguardo affascinato, da proselita, di Leni Riefenstal, che esalta il Trionfo della Volontà sublimando con riprese dal basso i magnifici dei dello stadio, accademie iperboliche e dimostrative. Né la propaganda sovietica dei tempi d’oro, che inquadra gli atletici reparti d’avanguardia della classe operaia mentre sfilano sulla Piazza Rossa ai piedi del Politburo, risucchiati dall’avvenire radioso. Lo sguardo non è sprezzante, né aristocraticamente disgustato. Definiamolo post politico. Né patriota, né militante. Da voyeur? No. Semplicemente rispettoso. Sebbene, forse, ammirato. Ciò che potrebbe passare per un elogio, se non proprio della forza, almeno della fraternità virile, ai giorni nostri ci voleva una donna per osarlo. Per forzare la porta, in modo indiscreto, di tutti questi maschi riuniti fra loro. I gender studies avrebbero potuto prendere in mano la questione e le femministe lamentarsi contro l’autore, contro l’autrice. Queste foto di famiglia senza madri, sorelle e spose, se fossero state fatte da un compare, sarebbero virate in un’arringa pro domo sua, macista e fascistoide. Questo arma virumque cano qui non è opportuno, tanto più che non ci mostra né armi, né eroi in armi, ma piuttosto minatori e schiene sudate. Ci è voluta una certa faccia tosta, nonostante tutto, per alzare le vele su mestieri, vocazioni e recinti dove la femminilità non ha posto — la Legione straniera è ancora uno di questi, in seno a un esercito che mette all’ordine del giorno la femminilizzazione dei suoi quadri.

Ciascuno sa che, in materia di perseveranza, resistenza, obbedienza e padronanza di sé, le donne possono tenere testa a chiunque. La forza fisica non è la causa della loro segregazione millenaria, non più delle abitudini di un sesso di cui si dice che è debole solo per antifrasi, per illudersi. È semplicemente un tratto culturale, risalente a tempi molto antichi, e Giovanna d’Arco è l’eccezione che conferma la regola. L’essere che dà la vita non è fatto per infliggere la morte agli animali e tanto meno agli uomini. Niente donne nei mattatoi, fra i boia e gli scannatoli autorizzati. Assistere, sì; massacrare, no.

Questa divisione dei compiti in seno alla Città, fra la medicina e l’omicidio, l’infermeria e il massacro, risale alla preistoria. La raccolta di bacche e tuberi da una parte, la caccia grossa dall’altra. E nei nostri eserciti e nelle nostre gendarmerie le donne non fanno parte dei gruppi di assalto e non partecipano ai raid. Non è una questione di capacità, anche se gli ormoni sono differenti; la faccenda è innanzitutto di ordine simbolico. Ci sono vedove di guerra, vedove di pompieri che si sono sacrificati, vedove di pescatori morti in mare e di toreri sventrati. In questi campi ad alto rischio, il vedovo non è conveniente, e rimane molto improbabile. Giorgia Fiorio ne prende atto, sobriamente, e senza pathos, e di quest’analisi oggettiva, non proprio alla moda e forse politicamente scorretta, bisogna ringraziarla. Non è così frequente captare attorno a noi, e con un’arte così ben padroneggiata, l’ombra che la preistoria allunga sulla nostra modernità, quando tutto ci spinge a dimenticare i fondamentali indelebili del vivere — e dell’operare — insieme.

(traduzione di Gian Luca Favetto)

Il dono · 2000/2009

Quale forza trascina le folle di pellegrini attraverso le più alte montagne e la sterminata vastità dei deserti? Che cosa hanno in comune coloro che levano le mani al cielo e coloro che battono la fronte al suolo? Perché alcuni nudi e altri coperti sino agli occhi, altri rasati, lustri come mandorle, o invece con i capelli lunghi ravvolti alle barbe dentro immensi turbanti? Chi abita i corpi trafitti dei flagellanti, chi le membra coperte di cenere, chi c’è sotto la pelle tatuata o dipinta d’intricati disegni, chi dietro le maschere, chi dentro il velo? L’estasi, la trance, la contemplazione, la meditazione, conducono a una percezione impronunciabile della morte, o a una realtà fisica dirompente?

Attraverso l’esperienza diretta, senza intenzioni enciclopediche, per otto anni ho seguito il cammino di un progetto fotografico, intorno a una ricerca personale: “il Dono”.  

Alle più remote origini del Credere, nei primi Testi sacri, come nella primigenia tradizione orale pagana, si svela una fitta trama di corrispondenze: rituali, gesti da sempre ripetuti, risonanze di un medesimo fremito dinanzi al mistero dell’esistenza. Sospeso sullo spazio-tempo universale, un labirinto di percorsi s’interseca nella ricerca d’unisono fra l’identità esteriore dell’individuo e il sé profondo. 

La storia del Credere, parallelamente a quella del linguaggio, traccia il cammino del genere umano. Il linguaggio e la scrittura raccontano quella sociale, relativa alla conoscenza, allo scambio e al confronto tra gli umani; le Credenze segnano alle origini la storia interiore, immersa nel tessuto culturale di ogni individuo e in una personalissima percezione dell’ignoto: il Mistero, il Sacro, l’occulto, il passato ancestrale, il futuro intangibile, i cicli della Natura, gli Elementi, l’idea del Tempo, la dimensione dello Spazio e infine il senso dell’esistenza tutta, nella sua complessità. 

Impronte di tracciati diversi convergono sino a sovrapporsi sull’orma della parola dono. Attraverso multiple variabili semantiche – dono – è una delle parole più antiche del linguaggio. Nella sua qualità transitiva incarna principalmente due sensi: offrire/donare e, ricevere, persino prendere. Ma la domanda è da sempre: “che cosa” offrire/ricevere. La finitezza dell’esistenza fisica sembra impigliarsi intorno all’evidenza del Mistero. La vita umana ricevuta quale grazia e offerta come tributo, sacrificio, consacrazione… Queste due “visioni prime” danno origine a diverse declinazioni d’interpretazione da una civiltà all’altra lungo la scia del tempo: al fondo di tutti gli interrogativi, ineludibile, la misura corporea della condizione umana segna ogni rituale. Da codificare nel gesto, disciplinare, reprimere, mortificare, purificare, onorare, adornare, denudare, possedere, liberare, il corpo – specificamente la “carne”, in quanto materia e nel contempo la “figura”, quale rappresentazione e paradigma dell’individuo – è il “portatore” paradossale della dimensione spirituale. Il messaggero tra la vita e la morte. Forse davvero, se l’anima è ombra, il corpo è ombra dell’ombra.

Il Dono è la vita, e poiché indissolubile da essa, anche la morte. Speranza promessa di altra vita oltre la vita e ancora altre vite oltre la propria, il cerchio conchiuso della ricevuta vita–grazia che genera altra vita. Poi è subito resa. 

Giorgia Fiorio, Il dono · 2000/2009,  in Il dono, di Giorgia Fiorio, Roma, Peliti Associati, 2009

Le figure della fotografia*

Il pugilato, la miniera, l’esercito, la corrida, gli incendi, il mare: questi termini designano il contesto dele varie tematiche documentarie trattate da Giorgia Fiorio. Ma valgono, per questo, a descrivere il vero soggetto delle fotografie? Non sarebbe più giusto parlare di pugili, minatori, soldati, toreri, pompieri, marinai e, dunque, uomini? Gruppi che, nella fattispecie, sono stati metodicamente esplorati dalla fotografa. Il suo lavoro non mette forse anche in evidenza ciò che lega questi uomini ai diversi elementi al cui contatto essi costruiscono la propria esistenza? Rapporto simbiotico con la terra, l’acqua e il fuoco, ma anche con l’animale o, ancora, più astrattamente, con l’idea di un nemico da combattere. Percepibile nelle immagini vi è infine quello spirito comunitario che si traduce in gesti e atteggiamenti solidali, complici. E questa familiarità, talvolta intimità, che Giorgia Fiorio fa vedere, passa innanzitutto attraverso l’immagine del corpo. Perché, prima di qualsiasi considerazione sulla condizione o personalità di questi uomini, è il corpo che crea la figura centrale, la pietra angolare del progetto fotografico, figura che chiaramente non va in tal caso intesa in senso restrittivo, limitato a un’idea di “figura” del volto, tanto più che i personaggi di questa grande galleria di immagini rimangono anonimi. Nell’istante della fotografia il corpo è staccato dal suo contesto o, al contrario, ne è strettamente embricato; è denudato oppure vestito di ornamenti magnifici. In breve, esso impartisce il ritmo di ciascuna delle sequenze di questo progetto. Regge la figura del discorso, ne è lo strumento, così come lo è la parola nella frase. Un discorso che è innanzitutto visivo, plastico. La fotografia sublima le forme di questi diversi corpi offerto alla fotografia, come pure il loro profilo e il loro volume; essa coglie attimi significativi del loro movimento. Qualità favorita da un senso molto sicuro della luce, da una padronanza del bianco e nero, dei suoi valori e sfumature, da una precisione nell’inquadratura e nella composizione. Ma dietro la magnificenza di questi corpi è possibile scorgere indizi che rimandano a valori morali e a sentimenti, ossia frammenti di umanità: il coraggio, la sopportazione o, al contrario, il dubbio, l’apprensione, la solitudine dinanzi alla prova. C’è anche amicizia, felicità condivisa. Alcune fotografie abbozzano persino un racconto. Resta il fatto che la maggior parte di esse descrive o evoca la prestazione fisica di questi individui. Le figure del corpo disegnano la forza, la potenza. E la scelta di ciascuna delle corporazioni — si osservi che “corporazione” racchiude il termine “corpo” — si affida a una visione archetipica della forza maschile. Chi meglio del soldato, del pompiere o del pugile può mai incarnare questa forza? Tutto converge in un medesimo senso: sono all’opera la disciplina, sia personale sia collettiva, e la gerarchia; degli uomini che appartengono a queste comunità esse fanno gli elementi si un sistema che non potrebbe venir meno. La fotografia illustra questa perfezione; non reca traccia di alcun difetto, di alcuno scarto di condotta. Nessun granello di sabbia s’insinua in questo meccanismo umano.

Nel progetto intitolato Il dono, che Giorgia Fiorio affronterà più tardi, troviamo lo stesso carattere metodico dell’indagine documentaria, la stessa avventura in seno alle comunità disperse qua e là nel mondo, lo stesso gusto per il lavoro elaborato su un lungo arco di tempo: quasi dieci anni per portare a compimento ogni progetto. Ritroviamo lo stesso interesse che la fotografia ha per gli universi chiusi e obbedienti a regole rigide.

La figura del corpo è ancora una volta messa in primo piano. Ma la differenza sta in questo caso nel suo motivo — il termine va preso nei suoi molteplici significati: il soggetto dell’immagine, ciò che è alla sua origine, o perfino il principio di ripetizione. Differiscono anche il destino dei personaggi fotografati e il contesto in cui evolvono. Il corpo è attraversato da altre energie, più spirituali che fisiche. Si potrebbe anche immaginare un gioco dei contrari: nel primo caso — quello delle comunità maschili — la forza morale è al servizio della potenza fisica, mentre nel “territorio” affrontato successivamente da Giorgia Fiorio il controllo del corpo è in funzione di un percorso spirituale, di ordine religioso. Resta da accennare ora al concetto di figura da un punto i vista retorico. A detta dei semiologi, sempre la fotografia d’autore, così come il testo letterario, poggia su una forma di retorica. È di fatto portatrice di simboli, di metafore che rimandano a realtà inscrivibili fuori del campo dell’inquadratura, fuori della sua cornice, oppure ad astrazioni: evoca allora ciò che non appartiene necessariamente all’ordine del visibile. Più in generale, il senso di un’opera fotografica si gioca anche dietro le immagini o fra le immagini, in ciò che si può leggere fra le righe, in un intertesto. Qual è allora il punto su questo vasto corpus visivo messo insieme da Giorgia Fiorio? Che cosa la fotografia spera di consegnarci al di là di una testimonianza documentaria su queste comunità di pugili, minatori, soldati, torte, pompieri e marinai? Evidentemente non si tratta neppure di un punto di vista tendente a idealizzare il genere maschile. Alla luce dei progetti che seguiranno, questo lavoro appare più come una tappa di una lunga ricerca finalizzata alla comprensione dell’essere umano, della qual la fotografia è lo strumenti.

*In francese il termine “figure” indica sia figura sia volto. Nel testo l’autore gioca su questo doppio significato.

Gabriel Bauret, Le figure della fotografia, in FIGURÆ, di Giorgia Fiorio, traduzione di Viviana Tonon, Venezia, Marsilio Editori, 2013

Lungo le strade del mistero

André Malraux, in uno dei suoi celebri aforismi, prediceva l’avvento di una nuova era caratterizzata dal ritorno del sentimento religioso, evocando in tal modo il bisogno dell’individuo di riporre nuovamente la propria fede in valori spirituali, dopo essersi a lungo abbandonato al culto della ricchezza materialistica e al desiderio incessante del possesso. Numerose fotografie di Giorgia Fiorio raccolte in questo libro mostrano soggetti palesemente, trasportati da un’ebbrezza interiore abbandonarsi interamente ad essa ed evocano esistenze ascetiche affrancate da ogni contingenza terrestre. Una forza di natura mistica o divina si è impossessata di questi soggetti e li ha trascinati verso un « aldilà », come se il loro pensiero avesse per un istante, quello della fotografia, abbandonato il corpo.

Cosa cerca Giorgia Fiorio impegnandosi in questo progetto che intitola « Il Dono » ?

Termine che riveste diversi significati, a cominciare dal principio della transitività : il dono non é soltanto ciò che l’essere umano offre, ma è anche una qualità che riceve in eredità. A chi ? Da chi ? Questo lavoro non risponde a queste domande e neanche è concepito come un’inchiesta sulle diverse manifestazioni della fede. È piuttosto testimone di un approccio (quello dell’autrice delle fotografie), circoscrive i contorni di un avventura conoscitiva che si basa su un bisogno di capire, descrivere e condividere. La fotografia sarebbe allora semplicemente considerata come un pretesto, al servizio di un’intenzione che la supera, di portata filosofica, se non addirittura metafisica ? Assolutamente no, poiché l’atto fotografico per quanto oggettivo non è mai imparziale ma partecipe di una scelta inerente allo sguardo rivolto sul reale (in particolare attraverso l’azione dell’inquadratura) e le immagini che ne risultano si schiudono in seguito a diverse interpretazioni. 

« Il Dono » non è soltanto la storia del soggetto che si offre all’atto fotografico, è anche quella di Giorgia Fiorio. Giorgia Fiorio riceve e restituisce. In questo movimento, nella natura e nelle qualità stesse del suo sguardo, nella sua maniera di materializzare le immagini, c’è aggiunta di significato, supplemento d’emozione, di anima, e lo spettatore della fotografia è invitato ad appropriarsene. Quest’ultimo rivive attraverso le immagini l’esperienza dell’autore oppure può interpretarle in tutt’altro modo.

Siano essi d’ispirazione religiosa o pagana, solitari o fortemente organizzati da un punto di vista sociale e culturale, voluti o subiti,  riti e cerimonie sono qui al crocevia del superamento fisico di sè stessi e della ricerca spirituale. In un primo tempo, l’ambizione di Giorgia Fiorio di fronte a questa realtà della quale essa non conosce necessariamente tutti i codici (come confrontata a una lingua che le è straniera), è quella di decriptare gesti e atteggiamenti dei soggetti. « Decriptare » va qui considerato nell’accezione più prossima al significato etimologico, cioè saper mettere in luce ciò che è « nascosto » e veicolatore di significato, tenendo presente che, nello stesso ordine d’idee, la fotografia è per definizione la scrittura della luce.

Martin Heidegger  scriveva che « la filosofia è un vicolo cieco ». Allo stesso modo, qui, il cammino percorso dall’autrice conta indubbiamente più dello sbocco. Ma nonostante ciò lo svolgimento del libro non è calcato sulla cronologia delle « missioni » successive a partire dalle quali il progetto ha preso corpo (in effetti, al termine reportage, la fotografa preferisce quello di « missione » che connota un impegno morale più forte), né tanto meno è elaborato sulla base di una logica dell’enumerazione. L’opera si fonda piuttosto su un principio sincretico che guida implicitamente Giorgia Fiorio nella sua progressione; ed è proprio di progressione che si tratta, in quanto ogni missione è portatrice di una luce nuova e promette la conferma di talune ipotesi.

Un passo indietro sui precedenti lavori di Giorgia Fiorio si rende necessario poiché « Il Dono » è nato da un’evoluzione, o più esattamente risponde ad una necessità: quella di nutrire e sviluppare incessantemente una ricerca personale, sia sul piano visivo che intellettuale. In precedenza Giorgia Fiorio si era consacrata per diversi anni a lavorare su comunità prettamente maschili, toreri, legionari, minatori, marinai ed altri ancora: uomini dalle vite segnate dal ricorso alla forza fisica, dall’esperienza dei proprî limiti, uomini spesso a contatto con la morte per le diverse prove che si trovano ad affrontare. Al termine di questo lavoro su queste comunità ha naturalmente preso forma il desiderio di estendere, in qualche sorta, lo sguardo aldilà di una realtà fisica, d’interessarsi ad altre forze, quelle dello spirito, alle manifestazioni della vita interiore. Impresa  paradossale per un fotografo: mostrare l’immagine di ciò che è astratto, tanto invisibile quanto indicibile. Giorgia Fiorio concentra quindi tutta la sua attenzione e la sua energia su questo nuovo obbiettivo adottando il metodo del fotografo del reale : circosrcrive un territorio – tanto geografico quanto antropologico – e gestisce il suo calendario per non mancare nessuno dei grandi riti o cerimonie ai quattro angoli della terra, che potrebbero arricchire il suo progetto superando ogni sorta d’ostacoli fisici e amministrativi. Ogni nuova missione ha lo scopo di registrare un avvenimento che ancora manca alla sua lista, ma questo non significa che Giorgia Fiorio aspiri all’esaustività né ancora meno che la sua opera sia motivata dall’esigenza dell’inventario, della classificazione. Non si tratta tanto di testimoniare una diversità quanto piuttosto di abbozzare i contorni di una ricerca universale.

Al temine del periplo che si conclude con la pubblicazione di questo libro, Giorgia Fiorio ha fissato i momenti particolari dell’esistenza nei quali l’essere umano cerca il senso della vita, una o la verità, così come una salvezza. Ma Giorgia Fiorio ha fatto di più: ha anche emesso l’ipotesi di un legame tra tutti questi momenti: un mistero comune che abita il corpo dei soggetti che essa fotografa. Che questo corpo, secondo il tipo di comunità religiosa o spirituale alla quale il soggetto appartiene, resti assolutamente immobile o tracci al contrario ogni sorta di gesti, sia esso ignorato, come trasparente, oppure oggetto di lacerazioni, se non addirittura di mutilazioni, che si animi di furiosi tremori o che ancora esprima la serenità, qui è proprio dell’espressione che si tratta, e sullo sfondo, di un linguaggio, del linguaggio. Il corpo che, nelle immagini della sua presenza spesso eccezionale, s’irradia oltre l’umano, è segno di per sé stesso oppure combinandosi ad altri. Dialoga con elementi della natura – l’acqua, il fuoco, la terra, la pietra – o l’acciaio degli strumenti che caratterizzano certi riti. S’iscrive nei paesaggi, cerca talvolta di fondersi a essi. Solo o associato ad altri, partecipa ad un movimento, sviluppa una sequenza della quale la fotografia fisserà un istante. Quest’ultima ce lo fa immaginare silenzioso oppure al contrario preso in un baccano assordante. « Il Dono » di Giorgia Fiorio è la narrazione di un confronto con tutti questi corpi che sono altrettanti segni, « frammenti di discorso » per riprendere un’espressione di Roland Barthes. Giorgia Fiorio non cerca di renderli più leggibili né di spiegarli, ci lascia liberi di seguirla sulle strade del loro mistero, oppure di comprenderli diversamente, guardarli come una forma pura, un improvviso dispiego d’energia, un lampo di luce.

 « Il Dono » è una domanda che Giorgia Fiorio pone all’uomo – nel senso generico del termine – altrettanto che a sé stessa, un approccio artistico del reale nel contempo oggettivo e soggettivo: perché in questo lavoro non c’è contenuto senza forma e viceversa. Le preoccupazioni visive s’intrecciano strettamente a quelle del pensiero. Questa fotografia risponde a un desiderio metodico d’investigazione ed è in questo senso strumentalizzata, certe immagini si rivelano quindi come insospettate illuminazioni sul soggetto. D’altro canto la tensione percepibile nelle scene fotografate trova spesso un prolungamento nella forma stessa dell’immagine, la composizione, le inquadrature, le prospettive, la luce che illumina i personaggi e i paesaggi, ed è una felice concordanza.

Più in generale, qualcosa nell’essenza stessa della fotografia aderisce alla natura del soggetto: la parola che serve a descrivere la particolarità dell’immagine fotografica non è quindi forse rivelazione? Nei riti e nelle cerimonie che fotografa, Giorgia Fiorio si prodiga a cogliere un fenomeno attinente al concetto del sorgere. Potrebbero essere quegli istanti in cui, secondo l’espressione dello psicanalista Jacques Lacan, « l’Es » parla. Dopotutto c’è del mistero nel fatto che un’immagine ci « parli » più di un’altra e questo mistero, non raggiunge forse quello delle scene di cui Giorgia Fiorio ci fa dono?

Gabriel Bauret, Lungo le strade del mistero, in Il dono, di Giorgia Fiorio, traduzione di Michela Sacco, Roma, Peliti Associati, 2009

La donna del dono

La donna che ho incontrato porta con sé un dono, è la donna del dono. 

Il suo dono – dice –  lo ha offerto perché lo ha ricevuto, lo ha dato mentre lo ha preso, lo restituisce e se lo ritrova tra le mani nell’immediata simultaneità che distingue le cose antecedenti o definitive, aurore nell’attesa o eterne notti, “non ancora” o “non più” dove abita solo un indistinto, un indeterminato tanto incerto da essere certezza piena, piena indocilità. Il suo dono – dice – è l’anima misteriosa, nuda, indisturbata, che abita i corpi, ma è anche corpo che si offre come figura dell’anima e intanto, quale figura, si nasconde dietro l’anima e infine è anima.  

Dice che il suo dono è vita e anche morte, perché senza vita non c’è morte ma inerzia, e senza morte non c’è vita, solo movimento senza intenzione, trasformarsi per diventare niente. Il suo dono – dice – è fede in un Altrove che è qui continuamente e sempre, il rendersi disponibile di un Assente che chiama il mondo fin dalle origini del mondo. Il suo dono è forza, tensione, corda tirata da entrambi i capi, orizzonte lanciato comunque più in là e più in qua. È un corpo legato stretto con grosse funi che però si solleva facendo forza sulle braccia a San Pedro Cutud per la Settimana Santa, schiacciato e insieme attratto, sabotato e intensamente proteso, è un albero secco nel deserto sudanese, sinonimo di sé e proprio contrario, non ha foglie ma lampi o resti fumosi di un incendio. E’ mano nitida e volto sfocato, il bisogno espresso con l’estrema intensità dagli occhi di una donna musulmana, forse somala, e la sua certezza dell’esaudimento, appagamento non possibile ma eternamente necessario. Il suo dono – dice – sono due corpi in combattimento che formano di nuovo quella prima coppia divisa chissà perché, sono il groviglio un giorno districato, in modo inatteso, ma poi ricomposto dalla lotta Kusti, e sono il cuneo rovesciato, simultaneamente in equilibrio e in bilico, precario, di due lottatori di Sumo. E sono i due abitanti dell’Amazzonia che insieme fanno una doppia velatura, o un arco teso da un bastone troppo esile che però sembra supportare le palme retrostanti. Sono dono tutte le membra che non si scontrano ma si rincontrano finalmente com’è stato e come di certo sarà. 

Il dono – dice – è il cerchio che si chiude nel ritmo perpetuo prima di ogni prima e dopo ogni dopo e pur sempre nell’adesso, è il moto rotante dei dervisci cioè l’abbrivio che a loro tempo presero le stelle. E dono sono le linee curve, filamenti in chissà quali cieli, o porosità di una scala d’argilla, come dentata, sul Macchu Picchu, o i riflessi di una roccia d’oro, o una criniera di pietra adagiata sul mare dell’isola di Pasqua, rotondità dolcissime e fermamente ondeggianti che non hanno diviso gli spazi ma li hanno lasciati compenetrarsi e ricostituirsi. Il dono è la doppia verticalità, piedi tesi verso il cielo e mani ferme ad afferrare la terra mentre qualcuno in posizione normalmente eretta ti aiuta a restare fisso in sospensione rovesciata, a Kunbh Mela o intorno a Benares. E poi – dice – il dono è la potenza primordiale, niente affatto caotica ma molto composta, piena di forma, prima e ultima risoluzione di energia, è l’incredibile immobilità di un drappo di tela che si srotola nel vento, la ferma stabilità dell’acqua gelida che scorre sui corpi degli Yamabushi o di quella tiepida di una cataratta sull’Isla Hispaniola, immobilità del movimento uguale e identica a quella di un corpo disteso con mani e piedi legati in una piccola gola da qualche parte sulle Ande, o di un uomo sull’Isola di Pentecoste, in caduta frenata.

La donna del Dono dice che la simultaneità degli opposti è esattezza e che esattamente si condensa nell’idea di grazia cioè gratuità, libera concessione e libero accoglimento, appagamento complessivo e senza motivo, senza compenso ma pieno zeppo di compensazione, senza merito, senza diritto, donazione vera, il dono che Dante illumina nel Convivio quando scrive che secondo «li savi […] la faccia del dono dee essere simigliante a quella del ricevitore, cioè a dire a che si convegna con lui, e che sia utile».

Io seguo la donna del dono nel suo viaggio, discreto per non turbarne la percezione e il pensiero, la ascolto mentre dice che il dono è qualità, virtù, bene concesso e ricevuto dalla natura o dalla fortuna o dall’Uno, resto in silenzio e la ascolto. Torquato Tasso pensava che «fra i più cari e preziosi doni fatti da Iddio a la natura umana è stato quello del parlare» e vorrei aggiungere quello dell’ascoltare, reciproco per necessità, io taccio e ascolto la donna del dono mentre mi dice che il dono è comunione, braccia e mani protese con forza di un gruppo di ebrei d’Israele, indebolite forse ma instancabili, convergenti al centro, e mani di un sacerdote cattolico, raccolte con le dita incrociate però pollice indice e dito medio sfuggono alla presa si aprono e formano il numero tre, una trinità, dono sono mani forti che reggono croci, mani serene che sfiorano croci, mani e piedi che riposano sulle croci, mani che servono per camminare.

Il dono – dice – è un ricco ossimoro, molte linee rette e molte circolari che non si intersecano mai perché intersecarsi significa tagliarsi, ferirsi, lacerarsi, sofferenza del distacco, piuttosto si sfiorano e formano l’armonia assoluta e silente di un giardino zen. Dice che il dono è corpo nero dipinto di bianco, corpo nero vestito di bianco, monile bianco su braccio nero o mani giunte in preghiera verso il basso nei riti del Condomblé, o sangue rappreso, eppure cola, non sai per quanto, non vedi dove terminerà quel fluire tenue ma tanto grave, e dice che il dono primo è una natura pura e immacolata, ancora priva di creature, solo cime, vette montagnose e un cielo alto coperto di nuvole, grondante nuvole, mentre ti chiedi perché la terra a volte sia più alta del cielo, perché la terra sia più luminosa del cielo, ti chiedi perché quelle convessità implacabili continuino senza contraddizione e senza priorità ad essere gravide di storia trascorsa. Ti chiedi: perché perseverano, in tutta gratuità e aggiustatezza a emettere corpi che la terra sommerge, corpi atterrati dal cielo o intenti a restare sospesi tra i due, partecipando di tutti e due?

Ovunque vada la donna del dono, lo scenario è prevalentemente all’aperto, quasi non ci sono case e neppure capanne, rari i luoghi decaduti e abbandonati, eventualmente intrecciati con radici, radici come pietre fondanti e come colonne, e pietre come radici vive sinuose e striscianti di alberi morti. Ovunque la donna del dono arriverà, e si fermerà, le genti scorreranno davanti a lei, andranno lungo la via segnata, aperta da stendardi o padiglioni aerei, poi sosteranno, si raduneranno e poi ripartiranno affrettandosi, e ogni luogo, nel suo viaggio, porterà in dono a lei, e a me, silenzioso, un’immagine, e ogni immagine è accompagnata da un simbolo, segni fonetici perché il dono sia guardato e simultaneamente udito, e compreso nelle diverse multiple lingue che lo dicono. E allora la natura dei luoghi e delle persone che li stanno attraversando sarà resa natura delle parole.

Ha scritto Cesare Pavese che «uscire in strada, e trovare dell’erba, dei sassi, commuove come una grande grazia, come un dono di Dio, come un sogno», ma qui non c’è l’erba di un giorno qualsiasi, non ci sono i sassi di un domani o di ieri, e il sogno non c’è; al suo posto l’eternità della veglia perpetua di un sempre oggi. Io seguo la donna del dono, guardo le cavità e le crepe oscure, non provo il timore ma l’assecondare. Taccio perché il dono genera energia muta, e quel che resta è lo stupore, e l’attesa.

Daniele Del Giudice, La donna del dono, in Il dono, di Giorgia Fiorio, Roma, Peliti Associati, 2009

Il dono

Vengo da una cultura, da letture, nelle quali il dono ha una sola direzione: “Io sono il recipiente. La bevanda è Dio. E Dio è l’assetato. Che senso ha alla fin fine la parola “sacrificio”? Ovvero anche la parola “dono”? Chi non ha nulla non può dare nulla. Il dono è di Dio a Dio.” (Dag Hammarskjöld, Linea della vita, nota del 7 aprile 1953). Percorro ora, lentamente, il libro di meditazioni e di fotografie — di “stazioni” si sarebbe detto un tempo — di Giorgia Fiorio, Il dono (Roma, Peliti Associati, 2009) e non riesco a uscire dalla contemplazione di quell’incedere ieratico, doloroso, impassibile, di corpi: un movimento umano, di secoli e continenti, che più si libera — o magari si crocifigge — e più si impasta di fango e acqua. Come se ciascuno dei riti, di iniziazione alla società o al sacro, alla fine riconducesse al fango della Creazione, limo che ricopre, addobba, aggrava, purifica? Un libro che affascina e che turba, che attinge a riti obliati della vicenda umana col divino, e che — meglio di secoli che nella mistica si sono vuotati — Isidoro di Siviglia, all’alba dell’evo cristiano, sapeva così ricapitolare:

       Propriamente si definisce dono quanto dato agli dei, munus, o regalo, invece, quanto dato agli esseri umani. Si denominano infatti munera i servizi che i poveri rendono ai ricchi al posto di regali concreti […]. Il munus è così chiamato in quanto ricevuto o dato con le mani. Esistono due tipi di offerte: il dono e il sacrificio. Si definisce dono qualunque offerta d’oro o di argento o di qualunque altro materiale pregiato. Si definisce sacrificio una vittima o quanto si bruci o si deponga sull’altare. Del resto, tutto ciò che si dà a Dio, o si dedica o si consacra. Ciò che si dedica, si dà dicendo, ossia elevando parole dedicate. […] L’immolazione [del sacrificio] fu così chiamata dagli antichi in quanto la vittima era uccisa dopo essere stata posta sulla mole dell’altare. […] Ora il termine immolazione è correttamente usato per indicare l’offerta del pane e del calice. […] Presso gli antichi si denominavano ostie i sacrifici che si offrivano prima di dirigersi contro gli hostes, ossia contro i nemici. Si dava invece il nome di vittima al sacrificio immolato dopo una vittoria (Etimologie o origini, VI, XIX, 26-34).

Tutto intero il sacrificio della Messa (il passo è del resto nel libro Degli uffici ecclesiastici) nel magma umano; tutta intera l’umanità come Messa. E anche, con una simbolica che abbaglia: “Presso i Latini si definiscono cerimonie tutti i riti sacri, chiamati in greco orgia. Ai dottori è sembrato che il termine cerimonia derivasse propriamente dal verbo carere, che significa esser privo, quasi fosse carimonia per il fatto che gli esseri umani carent, ossia sono privi della possibilità di usare personalmente quanto offerto durante i riti divini” (ibid., VI, XIX, 36). Lentamente, nella tradizione cristiana, dopo i martiri nei Colossei, la cerimonia si è imposta al sacrificio, la privazione al corpo, siamo rimasti privi di “dono”: non più vittime e non più vittorie, ma solo elevazioni. Il libro stesso termina, o si apre, con un albero spoglio che leva le braccia al cielo: partire da qui, o arrivare qui? Il termine arabo hadīa, posto ad apertura del Dono, sembra ricapitolare questo millenario percorso: “dono, regalo, sacrificio, condurre sulla retta via”. Ma nel suo peregrinare di tribù in tribù, questo libro di Giorgia Fiorio riporta l’Occidente cristiano alla domanda antica e radicale, riproposta da Jan Kott: sappiamo mangiare — sappiamo che stiamo mangiando — Dio?

Carlo Ossola, Il dono in Continente Interiore, Marsilio, 2010, pp.67-68

HUMANUM

Forma tangible dell’invisibile, inalterabile nella sua misura, la statua è mossa da un’incessante metamorfosi che non partecipa della definizione del suo volume, se posso supporne l’apparenza «diversamente rilevata1» in un fotografia, una superficie piana per definizione. Dal 2010 il progetto  Humanum riconsidera l’archetipo statuario della figurazione umana nella percezione del nostro tempo. Attraverso insiemi polittici composti da diverse figure da una medesima testa scolpita, in un processo di trasfigurazione luminosa la mìmesis fotografica qui non replica l’archetipo statuario nel suo inalienabile statuto archeologico, porta alla luce quel «c’è2» che la visone contiene. I polittici di Humanum non ritraggono qualcosa o qualcuno, interrogano ciò che «è» soltanto ed è unico e diverso per ognuno che contempla il trasfigurarsi della figura umana nel corpo scolpito.

Accanto al tempio, al capolavoro, al belvedere, accanto a tutto ciò che iscrive nel mondo la presenza di una permanenza, «c’ero» è il verbo che de-nomina l’esperienza della presenza vivente e getta la sua immagine a un “imperfetto” attuale. Senz’ombra, senz’orma, senza intangibili testimoni con cui “condividere” la traccia di un’immagine, esserci oggi non ci sembra più reale. In un inverso paradigma, quando la storia umana non ha immagine il riconoscimento che ciò che vive, vive di là dell’esistenza terrena e della sua manifestazione visibile, iscrive nella pietra la presenza invisibile di una la forma archetipa che trascenda  il margine  dei corpi viventi e l’efemerità del tempo umano.

Nominati Parádeigma, i polittici schiudono la metamorfosi dell’aspetto di un medesimo soggetto statuario nella variazione della luce. Come il paradigma verbale si declina ogni tempo in cui lo intendo, l’archetipo è l’esemplare originario (arché) di un numero infinito di figure (týpoi); nessuna figura è uguale ad altra figura, tutte sono identica parte-unica di un’indivisa identità invisible, la stessa identità del passo che in ogni passo stampa al suolo un’impronta diversa. Accusativo e nominativo il termine humanum convoca un vincolo riflesso tra il soggetto scolpito e il soggetto che lo contempla dove l’oggetto della contemplazione si traspone di contino.

Parigi nel 2018, ospite della Cattedra Europea di Victor Stoichita. Per questo progetto Fiorio ha collaborato con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, la Scuola Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa a cui è affiliata dal 2016 e ha lavorato sinora presso il National Archaeological Museum di Atene; l’Acropolis Museum di Atene; il Museo del Louvre di Parigi; l’Iraq Museum di Baghdad; il Kunsthistorisches Museum di Vienna; il National Archaeological Museum di Cipro a Nicosia; l’Egyptian Museum del Cairo; la Reale Commissione di Al-Ula presso il King Saud Museum di Riyadh e il Jordan Museum di Amman e la Collezione Al Thani di Parigi. 

 1 H. Bergson, La vie et l’œuvre de Ravaisson, in La Pensée et le Mouvant, Paris, Felix Alcan, 1934, pp. 264-265. 

 2 M. Merleau-Ponty, L’Œil et l’Ésprit, Gallimard, Paris, 1964, pp. 12-13; 54 e 56.

 

Cumfinis

C’è la dimensione orizzontale dei confini geografici e la trasparenza incorporea dell’aria che dalla verticale del cielo interseca il cerchio del mare. Si dilata allora lo spazio tra quell’altezza e ogni cosa sottostante: il cotone di nuvole galleggianti alla deriva del cielo, il ghiaccio intarsio che affila le vette come lame e sprofonda in sconfinati anfiteatri poi, subito liquido, corre sulle rocce e rompe il silenzio nei boschi scavando la pietra in fondo alle valli. Azzurri serpenti, sulla carta geografica i fiumi si snodano muti. Ma qual è la rifrazione dell’acqua, quale il frastuono che lustra i sassi sul greto? 
Quale la girazione che nel respiro delle onde rimuove il tornio del mare e forgia a ogni roccia una pietra rotonda? Confini contigui che trasformano la morfologia continua delle cose in un’osmosi dell’una nell’altra. Qual è allora il confine-primo da cui ora lo sguardo si slancia fuori da questo corpo dove il cuore batte sino in punta alle unghie? Dove, il confine ultimo del pensiero che attraversa quel corpo e superandolo proietta dinanzi a sé lo spazio del mondo che in sé contempla?