FIGURÆ

Scandalosa, questa immersione in bianco e nero nei margini, nei bassifondi della nostra società idolatra e narcisistica, che il glamour anestetizza e che il reale annebbia. Più che disturbante, questa indagine: provocatoria e necessaria. Giudicate voi. Questa è un’epoca da divi, campioni e people: ecco qui, invece, gruppi anonimi, volti sconosciuti, coreografie involontarie e senza étoile. Questa è un’epoca femminile, parla di uguaglianza e diversità: ecco qui il maschile nudo e crudo, collettivi ruvidi e virili, ossi duri ben poco amabili. E questo è doppiamente fuori tempo. Mai Helmut Newton avrebbe commesso una simile caduta di stile, nel bene o nel male. Astenersi paparazzi. Eccoci fuori dal contesto. Siamo al di qua. Al di sotto. Dentro luoghi in chiaroscuro, marginali e disprezzati, di cui le copertine delle nostre riviste non si nutrono e di cui i nostri giornalisti non si occupano: scantinati che le nostre società del lusso hanno perso l’abitudine di guardare, fino a dimenticarsi della loro esistenza. Mettendoci di fronte a gesti, espressioni e nudità talmente naturali che ci appaiono oscene, allenati come siamo al trucco e all’artificio, Giorgia Fiorio recupera l’angolo cieco del nostro campo visivo. E, forse, quello di una civiltà. Che cosa vediamo qui? Vediamo dei corpi. Ma non dei corpi oggetto. Nodosi, muscolosi, vischiosi, neri come il carbone. Corpi sorpresi al lavoro, in azione, mentre sudano. Non concepiti per l’esibizione o lo spettacolo (tranne un torero in posizione da matador, di una bellezza enfatica e fin troppo eloquente).

Noi tutti, in Occidente, viviamo in società piene di protesi, algide e cosmetiche, che ignorano lo sforzo fisico, perché hanno dimenticato la trincea e l’aratro, la guerra del fante e la fatica del contadino. Come ricordava recentemente uno storico del servizio militare, «il maschio adulto francese di vent’anni ha certo guadagnato una quindicina di centimetri, dal 1914, ma ha perso in massa muscolare, rusticità e resistenza». Il nostro mondo urbano, troppo urbano, che tende ad abbandonare le officine per gli uffici e delega ai suoi immigrati la cazzuola e il martello pneumatico, si dà al culto della forma e della messa in forma. Porta anche il nudo alle stelle, ma è un nudo astratto e molto lavorato, anche se non lavora per niente. Vuole il corpo levigato, slanciato e pulito, il più possibile seducente, dunque ritoccato e adattato a nuovi look. Erotico e plastico, estetizzante, perfino siliconato e plastificato. Nello sport d’alto livello come nell’esibizione dei culturisti, la telecamera coglie la performance finale, non l’allenamento, il doping, la preparazione, da cui lo sguardo viene distolto pudicamente. Il corpo ideale per il nostro tempo è bello come un fiore reciso adagiato su una carta lucida — inodore e gratuito, liberato dal suo humus di lacrime e sudore. Niente di tutto questo, qui. La carne ritrova la sua pesantezza e l’incarnato la sua serietà.

C’è di peggio. L’egolatria sfrenata che regna ai nostri giorni colloca il corpo guerriero, sportivo o desiderabile, su un piedistallo, ma a una condizione: che la sua gloria sia solitaria e nominativa. Che faccia risplendere un nome proprio, una celebrità, un mostro sacro. Qui, invece, niente campioni, nessun eroe e nemmeno podi. Il gruppo è la sua propria allegoria. Scansando idoli e icone, non imponendo nessuna polena, nessun leader o vedette riconoscibile, emergono sotto i nostri occhi corpi multindividuali. Figure collettive senza testa, in cui lo spirito del corpo fa di ciascuno il gemello del proprio vicino, suo simile e suo fratello. Ecco portata alla luce, in tutta spudoratezza, una zona d’ombra silenziosa, arcaica se si vuole, che preesiste al nostro culto per i ricchi e famosi e precede anche la grande frantumazione moderna. In queste promiscuità, dove la distanza interpersonale — l’intervallo codificato e conveniente fra due individui – non è più rispettata. Aggregati primitivi, molecole ad atomi compatti, senza gerarchia, né protocollo, strane coagulazioni plastiche, in cui si srotola al contrario la grande narrazione della modernità, che ci racconta come si sia liberata, a forza, la persona dalle pastoie collettive, come da una fatidica opaca colla si estragga una sovranità. I nostri metafisici della libertà non sono quelli dello spirito del corpo, come viene qui restituito dalla crudezza di uno sguardo al limite dello sconveniente. Quindi, un certo imbarazzo, non troppo lontano dal malessere. Non sappiamo più bene in che cosa consista un’appartenenza, in che modo si produca l’intreccio di un noi, che non è — ed è ben lontano dall’esserlo — il plurale di un io. Valutiamo ciò che l’egocentrismo e l’autocompiacimento occidentale ci hanno fatto perdere di vista, e da dove viene il nostro smarrimento di fronte al ritorno a livello planetario di tribù ed etnie. Il grande affaccendarsi comunitario che agita i continenti — tranne l’Europa — ci prende alle spalle dopo due secoli di separatismo, e noi strilliamo come aquile davanti al semplice richiamo della più ordinaria, la più immemorabile delle condizioni: il gomito a gomito, il corpo a corpo disciplinare. 

Eccolo ancora più disturbato, il nostro contemporaneo, che i riflettori ingannano a forza di abbagliare, e così perde l’aiuto delle migliori fra le nostre mitologie. Monaci in cocolla di panno grezzo e cappuccio bianco, soldati con le sciabole sguainate, in pantaloni rossi e pennacchio…Giorgia Fiorio non ha messo in scena i grandi corpi devoti dello Stato di diritto e della Chiesa di Cristo, gli Ordini dalla sublime sobrietà, le Accademie ricamate d’oro, le Magistrature in porpora ed ermellino, bensì basse caste operose. Lavoratori del mare e del fuoco, della miniera, del ring e dell’arena, sobriamente professionali, senza alcun prestigio, senza nemmeno l’aura delle gang e delle mafie, soggetti come sono a umili funzioni produttive per distrarci, proteggerci o alimentarci.

Queste corporazioni, di solito costituite, non sono gli sventurati americani degli anni bui, quelli di Walker Evans e Dorotea Lange. Non sono nemmeno i monelli sfrontati, i carbonai e i venditori di palloncini dei faubourg di Parigi, alla Doisneau. Non sono poetici, né pittoreschi. Tra la folla e la banda, tra la «vile moltitudine» e il sale della terra: questi domini segreti non abbandonano l’ordinario. Da qui, uno sguardo neutro, un lirismo freddo, che non prende le distanze dal suo oggetto, ma non cerca neppure di stregarlo o sedurlo in nome di una connivenza razziale, etnica o messianica – ein Volk o classe eletta. La foto non canta la rabbia, la guerra, né l’odio. Non è al servizio di nessuna causa con l’iniziale maiuscola. Non magnifica e non svaluta. Non è lo sguardo affascinato, da proselita, di Leni Riefenstal, che esalta il Trionfo della Volontà sublimando con riprese dal basso i magnifici dei dello stadio, accademie iperboliche e dimostrative. Né la propaganda sovietica dei tempi d’oro, che inquadra gli atletici reparti d’avanguardia della classe operaia mentre sfilano sulla Piazza Rossa ai piedi del Politburo, risucchiati dall’avvenire radioso. Lo sguardo non è sprezzante, né aristocraticamente disgustato. Definiamolo post politico. Né patriota, né militante. Da voyeur? No. Semplicemente rispettoso. Sebbene, forse, ammirato. Ciò che potrebbe passare per un elogio, se non proprio della forza, almeno della fraternità virile, ai giorni nostri ci voleva una donna per osarlo. Per forzare la porta, in modo indiscreto, di tutti questi maschi riuniti fra loro. I gender studies avrebbero potuto prendere in mano la questione e le femministe lamentarsi contro l’autore, contro l’autrice. Queste foto di famiglia senza madri, sorelle e spose, se fossero state fatte da un compare, sarebbero virate in un’arringa pro domo sua, macista e fascistoide. Questo arma virumque cano qui non è opportuno, tanto più che non ci mostra né armi, né eroi in armi, ma piuttosto minatori e schiene sudate. Ci è voluta una certa faccia tosta, nonostante tutto, per alzare le vele su mestieri, vocazioni e recinti dove la femminilità non ha posto — la Legione straniera è ancora uno di questi, in seno a un esercito che mette all’ordine del giorno la femminilizzazione dei suoi quadri.

Ciascuno sa che, in materia di perseveranza, resistenza, obbedienza e padronanza di sé, le donne possono tenere testa a chiunque. La forza fisica non è la causa della loro segregazione millenaria, non più delle abitudini di un sesso di cui si dice che è debole solo per antifrasi, per illudersi. È semplicemente un tratto culturale, risalente a tempi molto antichi, e Giovanna d’Arco è l’eccezione che conferma la regola. L’essere che dà la vita non è fatto per infliggere la morte agli animali e tanto meno agli uomini. Niente donne nei mattatoi, fra i boia e gli scannatoli autorizzati. Assistere, sì; massacrare, no.

Questa divisione dei compiti in seno alla Città, fra la medicina e l’omicidio, l’infermeria e il massacro, risale alla preistoria. La raccolta di bacche e tuberi da una parte, la caccia grossa dall’altra. E nei nostri eserciti e nelle nostre gendarmerie le donne non fanno parte dei gruppi di assalto e non partecipano ai raid. Non è una questione di capacità, anche se gli ormoni sono differenti; la faccenda è innanzitutto di ordine simbolico. Ci sono vedove di guerra, vedove di pompieri che si sono sacrificati, vedove di pescatori morti in mare e di toreri sventrati. In questi campi ad alto rischio, il vedovo non è conveniente, e rimane molto improbabile. Giorgia Fiorio ne prende atto, sobriamente, e senza pathos, e di quest’analisi oggettiva, non proprio alla moda e forse politicamente scorretta, bisogna ringraziarla. Non è così frequente captare attorno a noi, e con un’arte così ben padroneggiata, l’ombra che la preistoria allunga sulla nostra modernità, quando tutto ci spinge a dimenticare i fondamentali indelebili del vivere — e dell’operare — insieme.

(traduzione di Gian Luca Favetto)