Sull’argento della pellicola resta sempre qualcosa di noi

Dopo 26 anni attraverso 56 diversi paesi, a ogni nuovo viaggio in cui c’è da prendere un volo mi chiedo perché continuare a usare questi scomodissimi rotoli di pellicole dentro ai sacchi di piombo. Infatti ogni volta dinanzi alla minacciosi cancelli dei raggi-X ci sono d’affrontare una serie di negoziati per convincere chi, giustamente ti dice, «sto facendo il mio mestiere», a effettuare un sempre più improbabile controllo manuale. Due esempi per tutte le volte che – ormai quasi sempre – non funziona. Tornata in Israele a rifare un irripetibile lavoro inservibile, offuscato dai raggi, pur di evitare gli scanner sono uscita dal confine con la Giordania, a piedi come un contrabbandiere. Recentissimamente in Iraq, sbandierando fior di nulla-osta ministeriali scritti in Arabo, i miei sacchi neri stretti al petto – «questi devono passare con me» – riuscii ad attraversare tutti e nove i controlli e salire sul volo da Baghdad, per poi arenarmi alla barriera di Fiumicino, dove i miei documenti pieni di timbri colorati sono stati considerati inutili arabeschi.

Di là dalle non poche complicatezze della pellicola lungo le impervie rotte di molte peregrinazioni remote, ogni volta c’era da mettere in conto il dilemma di circostanze che portavano quasi sempre a qualche contrada senza corrente elettrica e di volta in volta, sotto la pioggia battente, nel vento salino tra le onde, dentro una tempesta di sabbia, o magari nella condensa di un’incendio che sotto i getti d’acqua dei pompieri che istantaneamente ti vela, obbiettivo, specchio e visore. Inutile dire, la macchina meccanica la smonto come un fucile, l’asciugo, la pulisco né mai si pianta. Gli odiosi caricatori del flash elettronico, quando la temperatura cala sotto lo zero, laddove l’asprezza dei monti non prevede (mai!) strutture alberghiere, occorre attaccarli alla batteria della Jeep e/o tenerseli al caldo in fondo al sacco a pelo affinché non si scarichino.

Oggi lavoro la notte o nei giorni di chiusura nel silenzio immobile dei musei archeologici e sebbene mi avvalga delle tecnologie più avanzate per finalizzare le immagini che realizzo intorno a figure umane abitate dai millenni, la mia matrice rimane d’argento. La parola fotografia rimanda non già alla replica di quanto è riflesso nello specchio dei miei occhi, ma al tratto della luce, ossia ciò che è invisibile nell’oscurità. Le fotografie sono come l’ombra che mi precede quando cammino. Sono come l’orma sotto al mio passo, ognuna diversa dall’altra, tutte uniche, tutte mie. Quando faccio una fotografia, del mondo che appare tutt’attorno cerco l’essenza invisibile di quel dentro di un fuori che – per Merleau-Ponty – è il fuori di un dentro. La realtà di un mondo in cui, come l’arciere fa di sé freccia e bersaglio, il mio punto di vista, nell’instante e la durata di ciò che guardo, coincide con la visione del soggetto interiore che compie ogni mia azione per coglierlo e fissarlo nel tempo.

L’unicità della presenza di quel mondo dentro e fuori di me, continua senza interruzione in un supporto di cui, diciamo pure per analogia, c’è “per davvero”. Non così quando la replica innumerabile dell’hic et nunc intasa la memoria transitoria dello smartphone, poiché «esserci» non sembra più “reale” senza la traccia di un’evidenza visibile e la sua simultanea condivisione con un improbabile testimone remoto. 

Sembra più prezioso, quando si fa una fotografia sulla pellicola, siamo più attenti, più consapevoli, non solo perché (apparentemente) più costoso del digitale, ma perché pensiamo resti qualcosa d’insostituibile e forse per sempre qualcosa di noi. 

GF 2017

Pubblicato su Origami n. 63, 26 Gennaio – 1 febbraio 2017