Il dono

Vengo da una cultura, da letture, nelle quali il dono ha una sola direzione: “Io sono il recipiente. La bevanda è Dio. E Dio è l’assetato. Che senso ha alla fin fine la parola “sacrificio”? Ovvero anche la parola “dono”? Chi non ha nulla non può dare nulla. Il dono è di Dio a Dio.” (Dag Hammarskjöld, Linea della vita, nota del 7 aprile 1953). Percorro ora, lentamente, il libro di meditazioni e di fotografie — di “stazioni” si sarebbe detto un tempo — di Giorgia Fiorio, Il dono (Roma, Peliti Associati, 2009) e non riesco a uscire dalla contemplazione di quell’incedere ieratico, doloroso, impassibile, di corpi: un movimento umano, di secoli e continenti, che più si libera — o magari si crocifigge — e più si impasta di fango e acqua. Come se ciascuno dei riti, di iniziazione alla società o al sacro, alla fine riconducesse al fango della Creazione, limo che ricopre, addobba, aggrava, purifica? Un libro che affascina e che turba, che attinge a riti obliati della vicenda umana col divino, e che — meglio di secoli che nella mistica si sono vuotati — Isidoro di Siviglia, all’alba dell’evo cristiano, sapeva così ricapitolare:

       Propriamente si definisce dono quanto dato agli dei, munus, o regalo, invece, quanto dato agli esseri umani. Si denominano infatti munera i servizi che i poveri rendono ai ricchi al posto di regali concreti […]. Il munus è così chiamato in quanto ricevuto o dato con le mani. Esistono due tipi di offerte: il dono e il sacrificio. Si definisce dono qualunque offerta d’oro o di argento o di qualunque altro materiale pregiato. Si definisce sacrificio una vittima o quanto si bruci o si deponga sull’altare. Del resto, tutto ciò che si dà a Dio, o si dedica o si consacra. Ciò che si dedica, si dà dicendo, ossia elevando parole dedicate. […] L’immolazione [del sacrificio] fu così chiamata dagli antichi in quanto la vittima era uccisa dopo essere stata posta sulla mole dell’altare. […] Ora il termine immolazione è correttamente usato per indicare l’offerta del pane e del calice. […] Presso gli antichi si denominavano ostie i sacrifici che si offrivano prima di dirigersi contro gli hostes, ossia contro i nemici. Si dava invece il nome di vittima al sacrificio immolato dopo una vittoria (Etimologie o origini, VI, XIX, 26-34).

Tutto intero il sacrificio della Messa (il passo è del resto nel libro Degli uffici ecclesiastici) nel magma umano; tutta intera l’umanità come Messa. E anche, con una simbolica che abbaglia: “Presso i Latini si definiscono cerimonie tutti i riti sacri, chiamati in greco orgia. Ai dottori è sembrato che il termine cerimonia derivasse propriamente dal verbo carere, che significa esser privo, quasi fosse carimonia per il fatto che gli esseri umani carent, ossia sono privi della possibilità di usare personalmente quanto offerto durante i riti divini” (ibid., VI, XIX, 36). Lentamente, nella tradizione cristiana, dopo i martiri nei Colossei, la cerimonia si è imposta al sacrificio, la privazione al corpo, siamo rimasti privi di “dono”: non più vittime e non più vittorie, ma solo elevazioni. Il libro stesso termina, o si apre, con un albero spoglio che leva le braccia al cielo: partire da qui, o arrivare qui? Il termine arabo hadīa, posto ad apertura del Dono, sembra ricapitolare questo millenario percorso: “dono, regalo, sacrificio, condurre sulla retta via”. Ma nel suo peregrinare di tribù in tribù, questo libro di Giorgia Fiorio riporta l’Occidente cristiano alla domanda antica e radicale, riproposta da Jan Kott: sappiamo mangiare — sappiamo che stiamo mangiando — Dio?

Carlo Ossola, Il dono in Continente Interiore, Marsilio, 2010, pp.67-68