La donna del dono

La donna che ho incontrato porta con sé un dono, è la donna del dono. 

Il suo dono – dice –  lo ha offerto perché lo ha ricevuto, lo ha dato mentre lo ha preso, lo restituisce e se lo ritrova tra le mani nell’immediata simultaneità che distingue le cose antecedenti o definitive, aurore nell’attesa o eterne notti, “non ancora” o “non più” dove abita solo un indistinto, un indeterminato tanto incerto da essere certezza piena, piena indocilità. Il suo dono – dice – è l’anima misteriosa, nuda, indisturbata, che abita i corpi, ma è anche corpo che si offre come figura dell’anima e intanto, quale figura, si nasconde dietro l’anima e infine è anima.  

Dice che il suo dono è vita e anche morte, perché senza vita non c’è morte ma inerzia, e senza morte non c’è vita, solo movimento senza intenzione, trasformarsi per diventare niente. Il suo dono – dice – è fede in un Altrove che è qui continuamente e sempre, il rendersi disponibile di un Assente che chiama il mondo fin dalle origini del mondo. Il suo dono è forza, tensione, corda tirata da entrambi i capi, orizzonte lanciato comunque più in là e più in qua. È un corpo legato stretto con grosse funi che però si solleva facendo forza sulle braccia a San Pedro Cutud per la Settimana Santa, schiacciato e insieme attratto, sabotato e intensamente proteso, è un albero secco nel deserto sudanese, sinonimo di sé e proprio contrario, non ha foglie ma lampi o resti fumosi di un incendio. E’ mano nitida e volto sfocato, il bisogno espresso con l’estrema intensità dagli occhi di una donna musulmana, forse somala, e la sua certezza dell’esaudimento, appagamento non possibile ma eternamente necessario. Il suo dono – dice – sono due corpi in combattimento che formano di nuovo quella prima coppia divisa chissà perché, sono il groviglio un giorno districato, in modo inatteso, ma poi ricomposto dalla lotta Kusti, e sono il cuneo rovesciato, simultaneamente in equilibrio e in bilico, precario, di due lottatori di Sumo. E sono i due abitanti dell’Amazzonia che insieme fanno una doppia velatura, o un arco teso da un bastone troppo esile che però sembra supportare le palme retrostanti. Sono dono tutte le membra che non si scontrano ma si rincontrano finalmente com’è stato e come di certo sarà. 

Il dono – dice – è il cerchio che si chiude nel ritmo perpetuo prima di ogni prima e dopo ogni dopo e pur sempre nell’adesso, è il moto rotante dei dervisci cioè l’abbrivio che a loro tempo presero le stelle. E dono sono le linee curve, filamenti in chissà quali cieli, o porosità di una scala d’argilla, come dentata, sul Macchu Picchu, o i riflessi di una roccia d’oro, o una criniera di pietra adagiata sul mare dell’isola di Pasqua, rotondità dolcissime e fermamente ondeggianti che non hanno diviso gli spazi ma li hanno lasciati compenetrarsi e ricostituirsi. Il dono è la doppia verticalità, piedi tesi verso il cielo e mani ferme ad afferrare la terra mentre qualcuno in posizione normalmente eretta ti aiuta a restare fisso in sospensione rovesciata, a Kunbh Mela o intorno a Benares. E poi – dice – il dono è la potenza primordiale, niente affatto caotica ma molto composta, piena di forma, prima e ultima risoluzione di energia, è l’incredibile immobilità di un drappo di tela che si srotola nel vento, la ferma stabilità dell’acqua gelida che scorre sui corpi degli Yamabushi o di quella tiepida di una cataratta sull’Isla Hispaniola, immobilità del movimento uguale e identica a quella di un corpo disteso con mani e piedi legati in una piccola gola da qualche parte sulle Ande, o di un uomo sull’Isola di Pentecoste, in caduta frenata.

La donna del Dono dice che la simultaneità degli opposti è esattezza e che esattamente si condensa nell’idea di grazia cioè gratuità, libera concessione e libero accoglimento, appagamento complessivo e senza motivo, senza compenso ma pieno zeppo di compensazione, senza merito, senza diritto, donazione vera, il dono che Dante illumina nel Convivio quando scrive che secondo «li savi […] la faccia del dono dee essere simigliante a quella del ricevitore, cioè a dire a che si convegna con lui, e che sia utile».

Io seguo la donna del dono nel suo viaggio, discreto per non turbarne la percezione e il pensiero, la ascolto mentre dice che il dono è qualità, virtù, bene concesso e ricevuto dalla natura o dalla fortuna o dall’Uno, resto in silenzio e la ascolto. Torquato Tasso pensava che «fra i più cari e preziosi doni fatti da Iddio a la natura umana è stato quello del parlare» e vorrei aggiungere quello dell’ascoltare, reciproco per necessità, io taccio e ascolto la donna del dono mentre mi dice che il dono è comunione, braccia e mani protese con forza di un gruppo di ebrei d’Israele, indebolite forse ma instancabili, convergenti al centro, e mani di un sacerdote cattolico, raccolte con le dita incrociate però pollice indice e dito medio sfuggono alla presa si aprono e formano il numero tre, una trinità, dono sono mani forti che reggono croci, mani serene che sfiorano croci, mani e piedi che riposano sulle croci, mani che servono per camminare.

Il dono – dice – è un ricco ossimoro, molte linee rette e molte circolari che non si intersecano mai perché intersecarsi significa tagliarsi, ferirsi, lacerarsi, sofferenza del distacco, piuttosto si sfiorano e formano l’armonia assoluta e silente di un giardino zen. Dice che il dono è corpo nero dipinto di bianco, corpo nero vestito di bianco, monile bianco su braccio nero o mani giunte in preghiera verso il basso nei riti del Condomblé, o sangue rappreso, eppure cola, non sai per quanto, non vedi dove terminerà quel fluire tenue ma tanto grave, e dice che il dono primo è una natura pura e immacolata, ancora priva di creature, solo cime, vette montagnose e un cielo alto coperto di nuvole, grondante nuvole, mentre ti chiedi perché la terra a volte sia più alta del cielo, perché la terra sia più luminosa del cielo, ti chiedi perché quelle convessità implacabili continuino senza contraddizione e senza priorità ad essere gravide di storia trascorsa. Ti chiedi: perché perseverano, in tutta gratuità e aggiustatezza a emettere corpi che la terra sommerge, corpi atterrati dal cielo o intenti a restare sospesi tra i due, partecipando di tutti e due?

Ovunque vada la donna del dono, lo scenario è prevalentemente all’aperto, quasi non ci sono case e neppure capanne, rari i luoghi decaduti e abbandonati, eventualmente intrecciati con radici, radici come pietre fondanti e come colonne, e pietre come radici vive sinuose e striscianti di alberi morti. Ovunque la donna del dono arriverà, e si fermerà, le genti scorreranno davanti a lei, andranno lungo la via segnata, aperta da stendardi o padiglioni aerei, poi sosteranno, si raduneranno e poi ripartiranno affrettandosi, e ogni luogo, nel suo viaggio, porterà in dono a lei, e a me, silenzioso, un’immagine, e ogni immagine è accompagnata da un simbolo, segni fonetici perché il dono sia guardato e simultaneamente udito, e compreso nelle diverse multiple lingue che lo dicono. E allora la natura dei luoghi e delle persone che li stanno attraversando sarà resa natura delle parole.

Ha scritto Cesare Pavese che «uscire in strada, e trovare dell’erba, dei sassi, commuove come una grande grazia, come un dono di Dio, come un sogno», ma qui non c’è l’erba di un giorno qualsiasi, non ci sono i sassi di un domani o di ieri, e il sogno non c’è; al suo posto l’eternità della veglia perpetua di un sempre oggi. Io seguo la donna del dono, guardo le cavità e le crepe oscure, non provo il timore ma l’assecondare. Taccio perché il dono genera energia muta, e quel che resta è lo stupore, e l’attesa.

Daniele Del Giudice, La donna del dono, in Il dono, di Giorgia Fiorio, Roma, Peliti Associati, 2009