Le figure della fotografia*

Il pugilato, la miniera, l’esercito, la corrida, gli incendi, il mare: questi termini designano il contesto dele varie tematiche documentarie trattate da Giorgia Fiorio. Ma valgono, per questo, a descrivere il vero soggetto delle fotografie? Non sarebbe più giusto parlare di pugili, minatori, soldati, toreri, pompieri, marinai e, dunque, uomini? Gruppi che, nella fattispecie, sono stati metodicamente esplorati dalla fotografa. Il suo lavoro non mette forse anche in evidenza ciò che lega questi uomini ai diversi elementi al cui contatto essi costruiscono la propria esistenza? Rapporto simbiotico con la terra, l’acqua e il fuoco, ma anche con l’animale o, ancora, più astrattamente, con l’idea di un nemico da combattere. Percepibile nelle immagini vi è infine quello spirito comunitario che si traduce in gesti e atteggiamenti solidali, complici. E questa familiarità, talvolta intimità, che Giorgia Fiorio fa vedere, passa innanzitutto attraverso l’immagine del corpo. Perché, prima di qualsiasi considerazione sulla condizione o personalità di questi uomini, è il corpo che crea la figura centrale, la pietra angolare del progetto fotografico, figura che chiaramente non va in tal caso intesa in senso restrittivo, limitato a un’idea di “figura” del volto, tanto più che i personaggi di questa grande galleria di immagini rimangono anonimi. Nell’istante della fotografia il corpo è staccato dal suo contesto o, al contrario, ne è strettamente embricato; è denudato oppure vestito di ornamenti magnifici. In breve, esso impartisce il ritmo di ciascuna delle sequenze di questo progetto. Regge la figura del discorso, ne è lo strumento, così come lo è la parola nella frase. Un discorso che è innanzitutto visivo, plastico. La fotografia sublima le forme di questi diversi corpi offerto alla fotografia, come pure il loro profilo e il loro volume; essa coglie attimi significativi del loro movimento. Qualità favorita da un senso molto sicuro della luce, da una padronanza del bianco e nero, dei suoi valori e sfumature, da una precisione nell’inquadratura e nella composizione. Ma dietro la magnificenza di questi corpi è possibile scorgere indizi che rimandano a valori morali e a sentimenti, ossia frammenti di umanità: il coraggio, la sopportazione o, al contrario, il dubbio, l’apprensione, la solitudine dinanzi alla prova. C’è anche amicizia, felicità condivisa. Alcune fotografie abbozzano persino un racconto. Resta il fatto che la maggior parte di esse descrive o evoca la prestazione fisica di questi individui. Le figure del corpo disegnano la forza, la potenza. E la scelta di ciascuna delle corporazioni — si osservi che “corporazione” racchiude il termine “corpo” — si affida a una visione archetipica della forza maschile. Chi meglio del soldato, del pompiere o del pugile può mai incarnare questa forza? Tutto converge in un medesimo senso: sono all’opera la disciplina, sia personale sia collettiva, e la gerarchia; degli uomini che appartengono a queste comunità esse fanno gli elementi si un sistema che non potrebbe venir meno. La fotografia illustra questa perfezione; non reca traccia di alcun difetto, di alcuno scarto di condotta. Nessun granello di sabbia s’insinua in questo meccanismo umano.

Nel progetto intitolato Il dono, che Giorgia Fiorio affronterà più tardi, troviamo lo stesso carattere metodico dell’indagine documentaria, la stessa avventura in seno alle comunità disperse qua e là nel mondo, lo stesso gusto per il lavoro elaborato su un lungo arco di tempo: quasi dieci anni per portare a compimento ogni progetto. Ritroviamo lo stesso interesse che la fotografia ha per gli universi chiusi e obbedienti a regole rigide.

La figura del corpo è ancora una volta messa in primo piano. Ma la differenza sta in questo caso nel suo motivo — il termine va preso nei suoi molteplici significati: il soggetto dell’immagine, ciò che è alla sua origine, o perfino il principio di ripetizione. Differiscono anche il destino dei personaggi fotografati e il contesto in cui evolvono. Il corpo è attraversato da altre energie, più spirituali che fisiche. Si potrebbe anche immaginare un gioco dei contrari: nel primo caso — quello delle comunità maschili — la forza morale è al servizio della potenza fisica, mentre nel “territorio” affrontato successivamente da Giorgia Fiorio il controllo del corpo è in funzione di un percorso spirituale, di ordine religioso. Resta da accennare ora al concetto di figura da un punto i vista retorico. A detta dei semiologi, sempre la fotografia d’autore, così come il testo letterario, poggia su una forma di retorica. È di fatto portatrice di simboli, di metafore che rimandano a realtà inscrivibili fuori del campo dell’inquadratura, fuori della sua cornice, oppure ad astrazioni: evoca allora ciò che non appartiene necessariamente all’ordine del visibile. Più in generale, il senso di un’opera fotografica si gioca anche dietro le immagini o fra le immagini, in ciò che si può leggere fra le righe, in un intertesto. Qual è allora il punto su questo vasto corpus visivo messo insieme da Giorgia Fiorio? Che cosa la fotografia spera di consegnarci al di là di una testimonianza documentaria su queste comunità di pugili, minatori, soldati, torte, pompieri e marinai? Evidentemente non si tratta neppure di un punto di vista tendente a idealizzare il genere maschile. Alla luce dei progetti che seguiranno, questo lavoro appare più come una tappa di una lunga ricerca finalizzata alla comprensione dell’essere umano, della qual la fotografia è lo strumenti.

*In francese il termine “figure” indica sia figura sia volto. Nel testo l’autore gioca su questo doppio significato.

Gabriel Bauret, Le figure della fotografia, in FIGURÆ, di Giorgia Fiorio, traduzione di Viviana Tonon, Venezia, Marsilio Editori, 2013