Il dono · 2000/2009

Quale forza trascina le folle di pellegrini attraverso le più alte montagne e la sterminata vastità dei deserti? Che cosa hanno in comune coloro che levano le mani al cielo e coloro che battono la fronte al suolo? Perché alcuni nudi e altri coperti sino agli occhi, altri rasati, lustri come mandorle, o invece con i capelli lunghi ravvolti alle barbe dentro immensi turbanti? Chi abita i corpi trafitti dei flagellanti, chi le membra coperte di cenere, chi c’è sotto la pelle tatuata o dipinta d’intricati disegni, chi dietro le maschere, chi dentro il velo? L’estasi, la trance, la contemplazione, la meditazione, conducono a una percezione impronunciabile della morte, o a una realtà fisica dirompente?

Attraverso l’esperienza diretta, senza intenzioni enciclopediche, per otto anni ho seguito il cammino di un progetto fotografico, intorno a una ricerca personale: “il Dono”.  

Alle più remote origini del Credere, nei primi Testi sacri, come nella primigenia tradizione orale pagana, si svela una fitta trama di corrispondenze: rituali, gesti da sempre ripetuti, risonanze di un medesimo fremito dinanzi al mistero dell’esistenza. Sospeso sullo spazio-tempo universale, un labirinto di percorsi s’interseca nella ricerca d’unisono fra l’identità esteriore dell’individuo e il sé profondo. 

La storia del Credere, parallelamente a quella del linguaggio, traccia il cammino del genere umano. Il linguaggio e la scrittura raccontano quella sociale, relativa alla conoscenza, allo scambio e al confronto tra gli umani; le Credenze segnano alle origini la storia interiore, immersa nel tessuto culturale di ogni individuo e in una personalissima percezione dell’ignoto: il Mistero, il Sacro, l’occulto, il passato ancestrale, il futuro intangibile, i cicli della Natura, gli Elementi, l’idea del Tempo, la dimensione dello Spazio e infine il senso dell’esistenza tutta, nella sua complessità. 

Impronte di tracciati diversi convergono sino a sovrapporsi sull’orma della parola dono. Attraverso multiple variabili semantiche – dono – è una delle parole più antiche del linguaggio. Nella sua qualità transitiva incarna principalmente due sensi: offrire/donare e, ricevere, persino prendere. Ma la domanda è da sempre: “che cosa” offrire/ricevere. La finitezza dell’esistenza fisica sembra impigliarsi intorno all’evidenza del Mistero. La vita umana ricevuta quale grazia e offerta come tributo, sacrificio, consacrazione… Queste due “visioni prime” danno origine a diverse declinazioni d’interpretazione da una civiltà all’altra lungo la scia del tempo: al fondo di tutti gli interrogativi, ineludibile, la misura corporea della condizione umana segna ogni rituale. Da codificare nel gesto, disciplinare, reprimere, mortificare, purificare, onorare, adornare, denudare, possedere, liberare, il corpo – specificamente la “carne”, in quanto materia e nel contempo la “figura”, quale rappresentazione e paradigma dell’individuo – è il “portatore” paradossale della dimensione spirituale. Il messaggero tra la vita e la morte. Forse davvero, se l’anima è ombra, il corpo è ombra dell’ombra.

Il Dono è la vita, e poiché indissolubile da essa, anche la morte. Speranza promessa di altra vita oltre la vita e ancora altre vite oltre la propria, il cerchio conchiuso della ricevuta vita–grazia che genera altra vita. Poi è subito resa. 

Giorgia Fiorio, Il dono · 2000/2009,  in Il dono, di Giorgia Fiorio, Roma, Peliti Associati, 2009

Lungo le strade del mistero

André Malraux, in uno dei suoi celebri aforismi, prediceva l’avvento di una nuova era caratterizzata dal ritorno del sentimento religioso, evocando in tal modo il bisogno dell’individuo di riporre nuovamente la propria fede in valori spirituali, dopo essersi a lungo abbandonato al culto della ricchezza materialistica e al desiderio incessante del possesso. Numerose fotografie di Giorgia Fiorio raccolte in questo libro mostrano soggetti palesemente, trasportati da un’ebbrezza interiore abbandonarsi interamente ad essa ed evocano esistenze ascetiche affrancate da ogni contingenza terrestre. Una forza di natura mistica o divina si è impossessata di questi soggetti e li ha trascinati verso un « aldilà », come se il loro pensiero avesse per un istante, quello della fotografia, abbandonato il corpo.

Cosa cerca Giorgia Fiorio impegnandosi in questo progetto che intitola « Il Dono » ?

Termine che riveste diversi significati, a cominciare dal principio della transitività : il dono non é soltanto ciò che l’essere umano offre, ma è anche una qualità che riceve in eredità. A chi ? Da chi ? Questo lavoro non risponde a queste domande e neanche è concepito come un’inchiesta sulle diverse manifestazioni della fede. È piuttosto testimone di un approccio (quello dell’autrice delle fotografie), circoscrive i contorni di un avventura conoscitiva che si basa su un bisogno di capire, descrivere e condividere. La fotografia sarebbe allora semplicemente considerata come un pretesto, al servizio di un’intenzione che la supera, di portata filosofica, se non addirittura metafisica ? Assolutamente no, poiché l’atto fotografico per quanto oggettivo non è mai imparziale ma partecipe di una scelta inerente allo sguardo rivolto sul reale (in particolare attraverso l’azione dell’inquadratura) e le immagini che ne risultano si schiudono in seguito a diverse interpretazioni. 

« Il Dono » non è soltanto la storia del soggetto che si offre all’atto fotografico, è anche quella di Giorgia Fiorio. Giorgia Fiorio riceve e restituisce. In questo movimento, nella natura e nelle qualità stesse del suo sguardo, nella sua maniera di materializzare le immagini, c’è aggiunta di significato, supplemento d’emozione, di anima, e lo spettatore della fotografia è invitato ad appropriarsene. Quest’ultimo rivive attraverso le immagini l’esperienza dell’autore oppure può interpretarle in tutt’altro modo.

Siano essi d’ispirazione religiosa o pagana, solitari o fortemente organizzati da un punto di vista sociale e culturale, voluti o subiti,  riti e cerimonie sono qui al crocevia del superamento fisico di sè stessi e della ricerca spirituale. In un primo tempo, l’ambizione di Giorgia Fiorio di fronte a questa realtà della quale essa non conosce necessariamente tutti i codici (come confrontata a una lingua che le è straniera), è quella di decriptare gesti e atteggiamenti dei soggetti. « Decriptare » va qui considerato nell’accezione più prossima al significato etimologico, cioè saper mettere in luce ciò che è « nascosto » e veicolatore di significato, tenendo presente che, nello stesso ordine d’idee, la fotografia è per definizione la scrittura della luce.

Martin Heidegger  scriveva che « la filosofia è un vicolo cieco ». Allo stesso modo, qui, il cammino percorso dall’autrice conta indubbiamente più dello sbocco. Ma nonostante ciò lo svolgimento del libro non è calcato sulla cronologia delle « missioni » successive a partire dalle quali il progetto ha preso corpo (in effetti, al termine reportage, la fotografa preferisce quello di « missione » che connota un impegno morale più forte), né tanto meno è elaborato sulla base di una logica dell’enumerazione. L’opera si fonda piuttosto su un principio sincretico che guida implicitamente Giorgia Fiorio nella sua progressione; ed è proprio di progressione che si tratta, in quanto ogni missione è portatrice di una luce nuova e promette la conferma di talune ipotesi.

Un passo indietro sui precedenti lavori di Giorgia Fiorio si rende necessario poiché « Il Dono » è nato da un’evoluzione, o più esattamente risponde ad una necessità: quella di nutrire e sviluppare incessantemente una ricerca personale, sia sul piano visivo che intellettuale. In precedenza Giorgia Fiorio si era consacrata per diversi anni a lavorare su comunità prettamente maschili, toreri, legionari, minatori, marinai ed altri ancora: uomini dalle vite segnate dal ricorso alla forza fisica, dall’esperienza dei proprî limiti, uomini spesso a contatto con la morte per le diverse prove che si trovano ad affrontare. Al termine di questo lavoro su queste comunità ha naturalmente preso forma il desiderio di estendere, in qualche sorta, lo sguardo aldilà di una realtà fisica, d’interessarsi ad altre forze, quelle dello spirito, alle manifestazioni della vita interiore. Impresa  paradossale per un fotografo: mostrare l’immagine di ciò che è astratto, tanto invisibile quanto indicibile. Giorgia Fiorio concentra quindi tutta la sua attenzione e la sua energia su questo nuovo obbiettivo adottando il metodo del fotografo del reale : circosrcrive un territorio – tanto geografico quanto antropologico – e gestisce il suo calendario per non mancare nessuno dei grandi riti o cerimonie ai quattro angoli della terra, che potrebbero arricchire il suo progetto superando ogni sorta d’ostacoli fisici e amministrativi. Ogni nuova missione ha lo scopo di registrare un avvenimento che ancora manca alla sua lista, ma questo non significa che Giorgia Fiorio aspiri all’esaustività né ancora meno che la sua opera sia motivata dall’esigenza dell’inventario, della classificazione. Non si tratta tanto di testimoniare una diversità quanto piuttosto di abbozzare i contorni di una ricerca universale.

Al temine del periplo che si conclude con la pubblicazione di questo libro, Giorgia Fiorio ha fissato i momenti particolari dell’esistenza nei quali l’essere umano cerca il senso della vita, una o la verità, così come una salvezza. Ma Giorgia Fiorio ha fatto di più: ha anche emesso l’ipotesi di un legame tra tutti questi momenti: un mistero comune che abita il corpo dei soggetti che essa fotografa. Che questo corpo, secondo il tipo di comunità religiosa o spirituale alla quale il soggetto appartiene, resti assolutamente immobile o tracci al contrario ogni sorta di gesti, sia esso ignorato, come trasparente, oppure oggetto di lacerazioni, se non addirittura di mutilazioni, che si animi di furiosi tremori o che ancora esprima la serenità, qui è proprio dell’espressione che si tratta, e sullo sfondo, di un linguaggio, del linguaggio. Il corpo che, nelle immagini della sua presenza spesso eccezionale, s’irradia oltre l’umano, è segno di per sé stesso oppure combinandosi ad altri. Dialoga con elementi della natura – l’acqua, il fuoco, la terra, la pietra – o l’acciaio degli strumenti che caratterizzano certi riti. S’iscrive nei paesaggi, cerca talvolta di fondersi a essi. Solo o associato ad altri, partecipa ad un movimento, sviluppa una sequenza della quale la fotografia fisserà un istante. Quest’ultima ce lo fa immaginare silenzioso oppure al contrario preso in un baccano assordante. « Il Dono » di Giorgia Fiorio è la narrazione di un confronto con tutti questi corpi che sono altrettanti segni, « frammenti di discorso » per riprendere un’espressione di Roland Barthes. Giorgia Fiorio non cerca di renderli più leggibili né di spiegarli, ci lascia liberi di seguirla sulle strade del loro mistero, oppure di comprenderli diversamente, guardarli come una forma pura, un improvviso dispiego d’energia, un lampo di luce.

 « Il Dono » è una domanda che Giorgia Fiorio pone all’uomo – nel senso generico del termine – altrettanto che a sé stessa, un approccio artistico del reale nel contempo oggettivo e soggettivo: perché in questo lavoro non c’è contenuto senza forma e viceversa. Le preoccupazioni visive s’intrecciano strettamente a quelle del pensiero. Questa fotografia risponde a un desiderio metodico d’investigazione ed è in questo senso strumentalizzata, certe immagini si rivelano quindi come insospettate illuminazioni sul soggetto. D’altro canto la tensione percepibile nelle scene fotografate trova spesso un prolungamento nella forma stessa dell’immagine, la composizione, le inquadrature, le prospettive, la luce che illumina i personaggi e i paesaggi, ed è una felice concordanza.

Più in generale, qualcosa nell’essenza stessa della fotografia aderisce alla natura del soggetto: la parola che serve a descrivere la particolarità dell’immagine fotografica non è quindi forse rivelazione? Nei riti e nelle cerimonie che fotografa, Giorgia Fiorio si prodiga a cogliere un fenomeno attinente al concetto del sorgere. Potrebbero essere quegli istanti in cui, secondo l’espressione dello psicanalista Jacques Lacan, « l’Es » parla. Dopotutto c’è del mistero nel fatto che un’immagine ci « parli » più di un’altra e questo mistero, non raggiunge forse quello delle scene di cui Giorgia Fiorio ci fa dono?

Gabriel Bauret, Lungo le strade del mistero, in Il dono, di Giorgia Fiorio, traduzione di Michela Sacco, Roma, Peliti Associati, 2009

La donna del dono

La donna che ho incontrato porta con sé un dono, è la donna del dono. 

Il suo dono – dice –  lo ha offerto perché lo ha ricevuto, lo ha dato mentre lo ha preso, lo restituisce e se lo ritrova tra le mani nell’immediata simultaneità che distingue le cose antecedenti o definitive, aurore nell’attesa o eterne notti, “non ancora” o “non più” dove abita solo un indistinto, un indeterminato tanto incerto da essere certezza piena, piena indocilità. Il suo dono – dice – è l’anima misteriosa, nuda, indisturbata, che abita i corpi, ma è anche corpo che si offre come figura dell’anima e intanto, quale figura, si nasconde dietro l’anima e infine è anima.  

Dice che il suo dono è vita e anche morte, perché senza vita non c’è morte ma inerzia, e senza morte non c’è vita, solo movimento senza intenzione, trasformarsi per diventare niente. Il suo dono – dice – è fede in un Altrove che è qui continuamente e sempre, il rendersi disponibile di un Assente che chiama il mondo fin dalle origini del mondo. Il suo dono è forza, tensione, corda tirata da entrambi i capi, orizzonte lanciato comunque più in là e più in qua. È un corpo legato stretto con grosse funi che però si solleva facendo forza sulle braccia a San Pedro Cutud per la Settimana Santa, schiacciato e insieme attratto, sabotato e intensamente proteso, è un albero secco nel deserto sudanese, sinonimo di sé e proprio contrario, non ha foglie ma lampi o resti fumosi di un incendio. E’ mano nitida e volto sfocato, il bisogno espresso con l’estrema intensità dagli occhi di una donna musulmana, forse somala, e la sua certezza dell’esaudimento, appagamento non possibile ma eternamente necessario. Il suo dono – dice – sono due corpi in combattimento che formano di nuovo quella prima coppia divisa chissà perché, sono il groviglio un giorno districato, in modo inatteso, ma poi ricomposto dalla lotta Kusti, e sono il cuneo rovesciato, simultaneamente in equilibrio e in bilico, precario, di due lottatori di Sumo. E sono i due abitanti dell’Amazzonia che insieme fanno una doppia velatura, o un arco teso da un bastone troppo esile che però sembra supportare le palme retrostanti. Sono dono tutte le membra che non si scontrano ma si rincontrano finalmente com’è stato e come di certo sarà. 

Il dono – dice – è il cerchio che si chiude nel ritmo perpetuo prima di ogni prima e dopo ogni dopo e pur sempre nell’adesso, è il moto rotante dei dervisci cioè l’abbrivio che a loro tempo presero le stelle. E dono sono le linee curve, filamenti in chissà quali cieli, o porosità di una scala d’argilla, come dentata, sul Macchu Picchu, o i riflessi di una roccia d’oro, o una criniera di pietra adagiata sul mare dell’isola di Pasqua, rotondità dolcissime e fermamente ondeggianti che non hanno diviso gli spazi ma li hanno lasciati compenetrarsi e ricostituirsi. Il dono è la doppia verticalità, piedi tesi verso il cielo e mani ferme ad afferrare la terra mentre qualcuno in posizione normalmente eretta ti aiuta a restare fisso in sospensione rovesciata, a Kunbh Mela o intorno a Benares. E poi – dice – il dono è la potenza primordiale, niente affatto caotica ma molto composta, piena di forma, prima e ultima risoluzione di energia, è l’incredibile immobilità di un drappo di tela che si srotola nel vento, la ferma stabilità dell’acqua gelida che scorre sui corpi degli Yamabushi o di quella tiepida di una cataratta sull’Isla Hispaniola, immobilità del movimento uguale e identica a quella di un corpo disteso con mani e piedi legati in una piccola gola da qualche parte sulle Ande, o di un uomo sull’Isola di Pentecoste, in caduta frenata.

La donna del Dono dice che la simultaneità degli opposti è esattezza e che esattamente si condensa nell’idea di grazia cioè gratuità, libera concessione e libero accoglimento, appagamento complessivo e senza motivo, senza compenso ma pieno zeppo di compensazione, senza merito, senza diritto, donazione vera, il dono che Dante illumina nel Convivio quando scrive che secondo «li savi […] la faccia del dono dee essere simigliante a quella del ricevitore, cioè a dire a che si convegna con lui, e che sia utile».

Io seguo la donna del dono nel suo viaggio, discreto per non turbarne la percezione e il pensiero, la ascolto mentre dice che il dono è qualità, virtù, bene concesso e ricevuto dalla natura o dalla fortuna o dall’Uno, resto in silenzio e la ascolto. Torquato Tasso pensava che «fra i più cari e preziosi doni fatti da Iddio a la natura umana è stato quello del parlare» e vorrei aggiungere quello dell’ascoltare, reciproco per necessità, io taccio e ascolto la donna del dono mentre mi dice che il dono è comunione, braccia e mani protese con forza di un gruppo di ebrei d’Israele, indebolite forse ma instancabili, convergenti al centro, e mani di un sacerdote cattolico, raccolte con le dita incrociate però pollice indice e dito medio sfuggono alla presa si aprono e formano il numero tre, una trinità, dono sono mani forti che reggono croci, mani serene che sfiorano croci, mani e piedi che riposano sulle croci, mani che servono per camminare.

Il dono – dice – è un ricco ossimoro, molte linee rette e molte circolari che non si intersecano mai perché intersecarsi significa tagliarsi, ferirsi, lacerarsi, sofferenza del distacco, piuttosto si sfiorano e formano l’armonia assoluta e silente di un giardino zen. Dice che il dono è corpo nero dipinto di bianco, corpo nero vestito di bianco, monile bianco su braccio nero o mani giunte in preghiera verso il basso nei riti del Condomblé, o sangue rappreso, eppure cola, non sai per quanto, non vedi dove terminerà quel fluire tenue ma tanto grave, e dice che il dono primo è una natura pura e immacolata, ancora priva di creature, solo cime, vette montagnose e un cielo alto coperto di nuvole, grondante nuvole, mentre ti chiedi perché la terra a volte sia più alta del cielo, perché la terra sia più luminosa del cielo, ti chiedi perché quelle convessità implacabili continuino senza contraddizione e senza priorità ad essere gravide di storia trascorsa. Ti chiedi: perché perseverano, in tutta gratuità e aggiustatezza a emettere corpi che la terra sommerge, corpi atterrati dal cielo o intenti a restare sospesi tra i due, partecipando di tutti e due?

Ovunque vada la donna del dono, lo scenario è prevalentemente all’aperto, quasi non ci sono case e neppure capanne, rari i luoghi decaduti e abbandonati, eventualmente intrecciati con radici, radici come pietre fondanti e come colonne, e pietre come radici vive sinuose e striscianti di alberi morti. Ovunque la donna del dono arriverà, e si fermerà, le genti scorreranno davanti a lei, andranno lungo la via segnata, aperta da stendardi o padiglioni aerei, poi sosteranno, si raduneranno e poi ripartiranno affrettandosi, e ogni luogo, nel suo viaggio, porterà in dono a lei, e a me, silenzioso, un’immagine, e ogni immagine è accompagnata da un simbolo, segni fonetici perché il dono sia guardato e simultaneamente udito, e compreso nelle diverse multiple lingue che lo dicono. E allora la natura dei luoghi e delle persone che li stanno attraversando sarà resa natura delle parole.

Ha scritto Cesare Pavese che «uscire in strada, e trovare dell’erba, dei sassi, commuove come una grande grazia, come un dono di Dio, come un sogno», ma qui non c’è l’erba di un giorno qualsiasi, non ci sono i sassi di un domani o di ieri, e il sogno non c’è; al suo posto l’eternità della veglia perpetua di un sempre oggi. Io seguo la donna del dono, guardo le cavità e le crepe oscure, non provo il timore ma l’assecondare. Taccio perché il dono genera energia muta, e quel che resta è lo stupore, e l’attesa.

Daniele Del Giudice, La donna del dono, in Il dono, di Giorgia Fiorio, Roma, Peliti Associati, 2009

Il dono

Vengo da una cultura, da letture, nelle quali il dono ha una sola direzione: “Io sono il recipiente. La bevanda è Dio. E Dio è l’assetato. Che senso ha alla fin fine la parola “sacrificio”? Ovvero anche la parola “dono”? Chi non ha nulla non può dare nulla. Il dono è di Dio a Dio.” (Dag Hammarskjöld, Linea della vita, nota del 7 aprile 1953). Percorro ora, lentamente, il libro di meditazioni e di fotografie — di “stazioni” si sarebbe detto un tempo — di Giorgia Fiorio, Il dono (Roma, Peliti Associati, 2009) e non riesco a uscire dalla contemplazione di quell’incedere ieratico, doloroso, impassibile, di corpi: un movimento umano, di secoli e continenti, che più si libera — o magari si crocifigge — e più si impasta di fango e acqua. Come se ciascuno dei riti, di iniziazione alla società o al sacro, alla fine riconducesse al fango della Creazione, limo che ricopre, addobba, aggrava, purifica? Un libro che affascina e che turba, che attinge a riti obliati della vicenda umana col divino, e che — meglio di secoli che nella mistica si sono vuotati — Isidoro di Siviglia, all’alba dell’evo cristiano, sapeva così ricapitolare:

       Propriamente si definisce dono quanto dato agli dei, munus, o regalo, invece, quanto dato agli esseri umani. Si denominano infatti munera i servizi che i poveri rendono ai ricchi al posto di regali concreti […]. Il munus è così chiamato in quanto ricevuto o dato con le mani. Esistono due tipi di offerte: il dono e il sacrificio. Si definisce dono qualunque offerta d’oro o di argento o di qualunque altro materiale pregiato. Si definisce sacrificio una vittima o quanto si bruci o si deponga sull’altare. Del resto, tutto ciò che si dà a Dio, o si dedica o si consacra. Ciò che si dedica, si dà dicendo, ossia elevando parole dedicate. […] L’immolazione [del sacrificio] fu così chiamata dagli antichi in quanto la vittima era uccisa dopo essere stata posta sulla mole dell’altare. […] Ora il termine immolazione è correttamente usato per indicare l’offerta del pane e del calice. […] Presso gli antichi si denominavano ostie i sacrifici che si offrivano prima di dirigersi contro gli hostes, ossia contro i nemici. Si dava invece il nome di vittima al sacrificio immolato dopo una vittoria (Etimologie o origini, VI, XIX, 26-34).

Tutto intero il sacrificio della Messa (il passo è del resto nel libro Degli uffici ecclesiastici) nel magma umano; tutta intera l’umanità come Messa. E anche, con una simbolica che abbaglia: “Presso i Latini si definiscono cerimonie tutti i riti sacri, chiamati in greco orgia. Ai dottori è sembrato che il termine cerimonia derivasse propriamente dal verbo carere, che significa esser privo, quasi fosse carimonia per il fatto che gli esseri umani carent, ossia sono privi della possibilità di usare personalmente quanto offerto durante i riti divini” (ibid., VI, XIX, 36). Lentamente, nella tradizione cristiana, dopo i martiri nei Colossei, la cerimonia si è imposta al sacrificio, la privazione al corpo, siamo rimasti privi di “dono”: non più vittime e non più vittorie, ma solo elevazioni. Il libro stesso termina, o si apre, con un albero spoglio che leva le braccia al cielo: partire da qui, o arrivare qui? Il termine arabo hadīa, posto ad apertura del Dono, sembra ricapitolare questo millenario percorso: “dono, regalo, sacrificio, condurre sulla retta via”. Ma nel suo peregrinare di tribù in tribù, questo libro di Giorgia Fiorio riporta l’Occidente cristiano alla domanda antica e radicale, riproposta da Jan Kott: sappiamo mangiare — sappiamo che stiamo mangiando — Dio?

Carlo Ossola, Il dono in Continente Interiore, Marsilio, 2010, pp.67-68

Il Dono

Perché i pellegrini si trascinano a migliaia su per le pietraie delle catene montuose? Perché certi nudi, altri coperti sino agli occhi, taluni rasati o invece i lunghi capelli e le barbe dentro grandi turbanti?  Chi abita i corpi rigati di sangue, chi le membra serrate dalle cinghie, coperte di cenere, adorne di ossa, piumaggi e impianti uncinati? Chi c’è sotto la pelle dipinta di segni intricati o tatuata col fuoco? Chi c’è dietro la maschera, chi dietro al velo? 
Dinanzi ai cicli della Natura, la volta del Cosmo, il passato ancestrale, il futuro intangibile, le dimensioni, le distanze, le proporzioni delle cose, un medesimo fremito interseca un labirinto di percorsi dispiegando la trama dei gesti che codificano lo spazio-tempo rituale. Nella sua qualità transitiva, dono,come il termine ospite, incarna una convergenza di significati indissolubili e opposti: offrire, ricevere; immolare, ringraziare e ancora prendere e rendere. Ma nel suo senso più arcano dono è ciò che allaccia i contrari: nei pittogrammi Sumeri del IV millennio a.C. il termine khadra è una X al centro di un cerchio: «ciò che è dentro», «ciò che è in fondo al cuore». L’eco di una sola risonanza trapassa le contraddizioni e le intreccia in una catena di corrispondenze, allora qual è il cardine sul quale tutti i rituali s’impigliano attorno al mistero dell’evidenza corporea nel suo valico terreno? 
Il Dono è la vita, è il respiro che l’attraversa – e anima – ciò che inspiriamo ed espiriamo di quello Spirito che, diciamo, “si rende” quando si spira.

reference texts

Il dono · 2000/2009 · Giorgia Fiorio
Lungo le strade del mistero · Gabriel Bauret
La donna del dono · Daniele Del Giudice
Il dono · Carlo Ossola