Sull’argento della pellicola resta sempre qualcosa di noi

Dopo 26 anni attraverso 56 diversi paesi, a ogni nuovo viaggio in cui c’è da prendere un volo mi chiedo perché continuare a usare questi scomodissimi rotoli di pellicole dentro ai sacchi di piombo. Infatti ogni volta dinanzi alla minacciosi cancelli dei raggi-X ci sono d’affrontare una serie di negoziati per convincere chi, giustamente ti dice, «sto facendo il mio mestiere», a effettuare un sempre più improbabile controllo manuale. Due esempi per tutte le volte che – ormai quasi sempre – non funziona. Tornata in Israele a rifare un irripetibile lavoro inservibile, offuscato dai raggi, pur di evitare gli scanner sono uscita dal confine con la Giordania, a piedi come un contrabbandiere. Recentissimamente in Iraq, sbandierando fior di nulla-osta ministeriali scritti in Arabo, i miei sacchi neri stretti al petto – «questi devono passare con me» – riuscii ad attraversare tutti e nove i controlli e salire sul volo da Baghdad, per poi arenarmi alla barriera di Fiumicino, dove i miei documenti pieni di timbri colorati sono stati considerati inutili arabeschi.

Di là dalle non poche complicatezze della pellicola lungo le impervie rotte di molte peregrinazioni remote, ogni volta c’era da mettere in conto il dilemma di circostanze che portavano quasi sempre a qualche contrada senza corrente elettrica e di volta in volta, sotto la pioggia battente, nel vento salino tra le onde, dentro una tempesta di sabbia, o magari nella condensa di un’incendio che sotto i getti d’acqua dei pompieri che istantaneamente ti vela, obbiettivo, specchio e visore. Inutile dire, la macchina meccanica la smonto come un fucile, l’asciugo, la pulisco né mai si pianta. Gli odiosi caricatori del flash elettronico, quando la temperatura cala sotto lo zero, laddove l’asprezza dei monti non prevede (mai!) strutture alberghiere, occorre attaccarli alla batteria della Jeep e/o tenerseli al caldo in fondo al sacco a pelo affinché non si scarichino.

Oggi lavoro la notte o nei giorni di chiusura nel silenzio immobile dei musei archeologici e sebbene mi avvalga delle tecnologie più avanzate per finalizzare le immagini che realizzo intorno a figure umane abitate dai millenni, la mia matrice rimane d’argento. La parola fotografia rimanda non già alla replica di quanto è riflesso nello specchio dei miei occhi, ma al tratto della luce, ossia ciò che è invisibile nell’oscurità. Le fotografie sono come l’ombra che mi precede quando cammino. Sono come l’orma sotto al mio passo, ognuna diversa dall’altra, tutte uniche, tutte mie. Quando faccio una fotografia, del mondo che appare tutt’attorno cerco l’essenza invisibile di quel dentro di un fuori che – per Merleau-Ponty – è il fuori di un dentro. La realtà di un mondo in cui, come l’arciere fa di sé freccia e bersaglio, il mio punto di vista, nell’instante e la durata di ciò che guardo, coincide con la visione del soggetto interiore che compie ogni mia azione per coglierlo e fissarlo nel tempo.

L’unicità della presenza di quel mondo dentro e fuori di me, continua senza interruzione in un supporto di cui, diciamo pure per analogia, c’è “per davvero”. Non così quando la replica innumerabile dell’hic et nunc intasa la memoria transitoria dello smartphone, poiché «esserci» non sembra più “reale” senza la traccia di un’evidenza visibile e la sua simultanea condivisione con un improbabile testimone remoto. 

Sembra più prezioso, quando si fa una fotografia sulla pellicola, siamo più attenti, più consapevoli, non solo perché (apparentemente) più costoso del digitale, ma perché pensiamo resti qualcosa d’insostituibile e forse per sempre qualcosa di noi. 

GF 2017

Pubblicato su Origami n. 63, 26 Gennaio – 1 febbraio 2017

FIGURÆ: NOTA DELL’AUTORE

Un libro è il calco di un’esperienza interiore, l’orma delle storie che hanno attraversato un orizzonte privato della conoscenza del mondo.

New York 1990, sono al termine di un corso di studi di fotografia, ho vent’un anni e il mondo dinanzi agli occhi è immediato e irraggiungibile. 

Chiave o pretesto, in quel tempo credo che la photographie du réel sia il linguaggio per penetrare l’universo impervio e scabroso di quegli uomini che nell’immaginario collettivo di un passato recente appaiono come archetipi di un “ideale” del maschio occidentale – pugili, minatori, legionari, torero, pompieri, marinai – realtà umane impenetrabili al mio sguardo. Trascinata da una corsa febbrile a tutto questo non penso. In una cieca compulsione voglio vedere, voglio guardare ogni cosa che mi sembra impossibile da avvicinare. Ogni anno sposta il punto di vista sui codici incomprensibili, i gesti ripetuti come atti rituali. Attributi esteriori, i paramenti si svuotano e disvelano ciò che non sapevo di cercare: non la figura maschile incarnata di una forza presunta, ma spogliato l’individuo, la sua assurda fragilità, struggente nello scontro fisico estremo. 

Nel sesto anno il progetto si definisce sull’arco di un solo orizzonte e soltanto nel compimento finale inizio a capire che gli occhi cercano di trattenere quanto in ogni istante sfugge alla realtà del visibile.

Nell’eco delle voci, al vivo di quei giorni, in queste pagine, ventitré anni dopo l’avvio del progetto Des Hommes, ho voluto ritrovare il respiro che l’ha portato per dieci anni.

DEL COMBATTIMENTO

New York 1990: è un pomeriggio di marzo, salgo sul treno «A» in direzione Brooklyn. Studentessa all’International Center of Photography di Manhattan, la prima Hasselblad a tracolla, il treppiedi in spalla, mi faccio rubare ogni cosa prima ancora di arrivare. Al culmine della disperazione mi precipito al National Arts Club dal Chino: mi mette tra le mani un’altra macchina fotografica e taglia corto « se ci torni domani Te la lascio». Brooklin, Front Street 77:  dal marciapiede leggo un’insegna rossa, Gleason’s Gym. Salgo per una scala di cemento con lo zoccolo alto di vernice azzurra come a scuola; si sente un battere di colpi sordi, l’ansimare smorzato di voci maschili. Sull’ultimo gradino esito un attimo, impugno la maniglia e spingo la porta, resiste, dimentico che negli Stati Uniti si aprono al contrario, tiro con forza ed entro. Per la prima volta varco la soglia di quello spazio infinitesimale che mi separa dalle cose. 

Occhi sfuggenti, naso rotto, Hira Becker è il direttore. Mi lancio in una gran spiegazione sul lavoro che vorrei fare, fuma senza ascoltarmi, poi guardandomi all’improvviso accorda il permesso raccomandando di «non importunare i ragazzi» e pagare l’entrata di un dollaro, «come tutti». 

Dalle 17 alle 22, cinque giorni alla settimana sono a Front Street. Passa un mese, poi due, all’improvviso desidero cambiare aria, vedere un’altra realtà e con occhi nuovi penetrare più a fondo la dimensione che inizio a scoprire. Un vecchio allenatore mi spedisce a Harlem da “un amico”. Il Physical Johnson Boxing Club è un umido sottosuolo dove si batte una folla di portoricani. Una sera vengo condotta a un vero combattimento nel Queens, là – due metri e zero quattro, due revolver bene in vista – Big George irrompe  sul mio cammino. Volano altri tre mesi e negli occhi che tutti i giorni guardano in fondo al mio obbiettivo c’è la disperazione e una dignità che vuole essere raccontata. Nel Bronx, dopo l’allenamento, al Fort Apache Youth Centre, la notte si spara al tirassegni nel seminterrato. Big George mi porta con sé per tutti iclub di New York e nelle sale dei match, affollate e fumose in fondo a qualche strada. Tutto cambia quando i pugili divengono professionisti: pagati, si passa da tre a sei round, i guanti ridotti e più nessuna protezione alla testa, ma il vero prezzo è la posta altissima che pagano loro, la via senza ritorno per uscire dalla strada, le lesioni cerebrali. Trascorre un anno, è tempo di tornare in Europa, il match di Tyson è l’ultimo che vedrò. 

Con un’automobile bordeaux attraverso la notte per arrivare al peso poco prima dell’alba. Atlantic City, 6h30: Tyson è una star e i media internazionali sono schierati in forze. Non ho l’accredito, m’infilo tra la folla e non so come raggiungo il bordo palco, l’SWC a settanta centimetri dallo slip rosso di Iron Mike sollevo il flash altissimo davanti a tutti e scatto tre immagini. Si alza un coro di proteste, vengo immediatamente messa alla porta – ma ormai non ha più importanza.

DELLA TERRA

Donetzk, Donbass, Ucraina: ventiquattro ore su ventiquattro, tutti i giorni della settimana, quattro turni di sei ore, ottanta dollari al mese, questo le Shakhty del Donbass: cento sessanta miniere comparse tra la fine dell’ottocento e l’inizio del XX secolo. Questo regno della notte stende le sue città sotterranee dentro un mosaico di gallerie e cunicoli, senza posa attraversati dal vento nel cieco respiro della terra. Il mio russo è ancora approssimativo, chiedo due volte la profondità delle miniere; una mano scrive dei numeri, sulla carta quadretti leggoda–700mt.a–1.400mt. 

Si scende al cambio del turno con una cremagliera, sorta di montacarichi che porta i carrelli di carbone e sino a quindici persone. Mille metri fanno circa dieci minuti, sebbene la discesa sembri eterna, la velocità è “sostenuta” e all’arrivo è consigliato tenersi, le gambe flesse, pronti al contraccolpo. Sul fondo tutti scompaiono ingoiati nelle tenebre. Le zone più vicine sono a un’ora di marcia: la torcia è collegata a una batteria di due chili alla cintola; puntato sui piedi, un cono di luce ritaglia un sottile triangolo luminoso che fruga la profondità del buio e acceca chiunque vi stia di fronte. Si cammina in silenzio in fila indiana, si scivola, si affonda all’improvviso, si urtano ostacoli inaspettati, talvolta quando la pendenza cambia di colpo, si cade.Il sole può brillare alto nel cielo, la notte essere piena di stelle e qui sotto il mondo migliaia di uomini senza posa. Nessuno esce dalla miniera sino al termine del suo turno. In ogni “cantiere” lavorano da tre a sei minatori; ci sono poi gallerie più strette dette lava dove occorre trascinarsi carponi per centinaia di metri nel fracasso dei cingoli e le rotaie che scorrono a qualche centimetro dal viso e dalle mani. A un certo punto tutto finisce e si esce neri di carbone e muti di fatica.

I minatori hanno due spogliatoi, uno per “l’abito della miniera”, l’altro per quelli della vita. Al centro si è nudi sotto ai getti d’acqua bollente. Devo entrare là dentro, cogliere quell’istante di vita sospesa. Ascolto l’acqua scrosciare tra risa di uomini. Un’altra soglia. Adesso o mai più. Batto tre colpi sul vetro smerigliato, c’è un improvviso silenzio; gli occhi nascosti, fissi dietro al visore, spalanco la porta. 

A Donetsk abito a casa di Nikolaï Grigorevitch, un capo miniera che tutti i giorni esce la notte e torna all’alba, parte all’alba, e rientra la notte. Galïa, la moglie passa le giornate a cucinare per tutti i minatori che vanno e vengono a tutte le ore. 

A casa per lavarsi c’è un rubinetto da dove cola un filo d’acqua fredda, fuori, accanto alla pianta di lamponi, sovente allora si va a fare la doccia allo stabilimento con le altre donne: bianchissime, ridono sotto l’acqua fumante, poi s’asciugano con gran vigore e truccatesi con la massima cura escono a scherzare nel cortile con gli uomini. Il giorno della mia partenza con gran cerimonia Galïa mi consegna un foglio con la ricetta dei cetrioli in salamoia.

DELLE ARMI

Sono passati diciassette anni dal giorno in cui ricevo la seguente comunicazione da Aubagne: oggetto riferimento fax: 06-01-1995. Facendo seguito allo scambio verbale, confermo accordo per la realizzazione delle campagne fotografiche secondo il planning proposto. Trasmetto di seguito la lista dei vaccini necessari all’ingresso nei paesi dove si trovano i reggimenti della Legione Straniera: Tifo / D.T.P. / Febbre Gialla/ Meningite / Epatite A / Epatite B. Per la Malaria, data la vostra probabile esposizione a lungo termine, verrete informata sulla procedura preventiva. Auguro buona ricezione pregandovi di accogliere l’espressione della mia considerazione. Grado, nome, firma. L’Ufficiale di Comunicazione della Legione Straniera

Passa un mese, Parigi, Ministero della Difesa: il Colonello firma un documento «Voilà Madame, arruolata per dieci mesi » poi facendo scivolare un cartoncino rettangolare nella busta che mi consegna aggiunge « Prima di andare a incontrare il Comandante della Légion, imparatelo a memoria». Esco sul Boulevard, ancora non ci credo. Tiro fuori il cartoncino, lo rigiro tra le dita, è il Code d’Honneur du Legionarie.

Ma che cos’è la Legione Straniera? Cento dieci paesi rappresentati, tutte le etnie, ogni dimensione umana, sociale e culturale, l’accento di tutte le lingue nel francese che imparano. Il képi bianco, l’anonimato, i canti, la cadenza di marcia di ottantotto passi al minuto; la rinuncia temporanea alla propria cittadinanza e allo statuo giuridico-civile del paese d’origine. La prima ferma di cinque anni è un taglio netto con chi si è e tutta la vita fuori.

La storia comincia a Aubagne, non lontano dalla montagna Sainte-Victoire. I volontari sbarcano alle cinque del mattino da un camion militare che arriva dalle sezioni di Parigi o Strasburgo; una porta si spalanca in una sala vasta e bianca con il soffitto basso e si richiude sul passato. Senza eccezione tutti gli effetti personali sono confiscati. Denudati, scalzi sulle piastrelle indossando quell’indumento ultimo che, declinato dal tanga ai mutandoni in lana passando per lo short di microfibra sino al boxer inglese con le iniziali ricamate, rivela più di quanto occulti, i candidati, le mani davanti al pube, girano attorno inquieti occhi lustri evitando gli sguardi. Poi ognuno riceve il suo numero d’identificazione e un pacco d’indumenti. Qualcuno, all’ultima istanza di un processo inconsapevole, sublima una catarsi, certi, malediranno il soffio di ogni respiro. 

Nel centro esami psicoattitudinali sfoglio il fascicolo dei test statistici. Estraggo una trentina di pagine dove sono tratteggiati degli alberi di diversa specie. «Il candidato riceve le tipologie degli esemplari; guardate qui è tutto tradotto in diverse lingue». Leggo le istruzioni: Scegliere un solo tipo di albero e ridisegnarlo. Pini e Palme non sono ammessi. Chiedo di vedere la sala esami: dita bianche e lunghe, le unghie curate tracciano esitanti una quercia improbabile. Un’altra mano, reticolata di venuzze azzurre s’immobilizza a mezz’aria dinanzi a una radice che sorge solitaria al centro dalla pagina. Accanto, tra le dita di un arto vigoroso, una matita corre decisa, in pochi segni ben netti emerge un possente baobab. Tutti tacciono concentrati. Con un cenno degli occhi il sergente mi chiama fuori – «Quegli alberi là dentro sono come questi uomini, il caso riunisce qui un strana foresta. In queste prime tre settimane, sono selezionati i profili atti a integrarsi e quelli destinati al rinvio. Ci vuole gente ben solida».

Marzo 1995 Libreville, Gabon: Pedro mi tende la destra e schiva lo sguardo. E’ il primo Legionario che conosco. Qualche minuto dopo si parte verso la foresta; Pedro guida un fuoristrada militare e parla poco. La jeep sobbalza sul terreno ineguale, per un tempo che si dilata a una misura indefinita, oltre i vetri scorre un paesaggio di scuri grovigli. Non oso fare domande, s’impara che le domande qui è meglio non farle. Nei mesi che seguiranno, Pedro lo ritroverò tre volte, ognuna con un nome diverso. «Cinque ore e quaranta sei primi» annuncia spegnendo il motore. Due camion militari sostano a bordo pista. Una trentina di Legionari posano in gruppo vicino a un grande cartello bianco. Si stanno fotografando. 

Ci avviciniamo affondando nel fango. Leggo: a grandi lettere nere – QUI ATTRAVERSATE L’EQUATORE – sotto, in rosso carminio le distanze delle città del mondo, Roma: 5000 km ; Parigi : 6000 km ; Londra : 6500 km Mosca: 7600 km ; New York: 10300 km ; Pechino: 12500 km ; Tokyo: 14400 km… 

Un metro, un passo. Sono nell’altro emisfero: è la prima fotografia di questa storia. 

Quattro giorni dopo alle 3h45 è prevista un’ultima séance sulla pista di addestramento in foresta equatoriale. Colano vent’otto minuti di piroga nella foschia di una palude – «Signori, non possiamo avanzare oltre. Si sbarca qui.». E’ l’alba. Immersi sino alla vita nell’acqua nera si procede tra le mangrovie; una nuvola d’insetti accompagna i movimenti.

Stremato, coperto di fango, il plotone alle nove è di ritorno a Libreville. La riga in parte perfetta sui capelli fradici di sudore, un giovane tenente, che ha tutta l’aria d’esser appena uscito da Saint Cyr, il tono marziale, la voce di ragazzo ingiunge «Avete venticinque primi per prepararvi, poi di volata all’aeroporto». Giro la chiave, lo chauffeur, il motore acceso, mi aspetta sul piazzale. Guardo un istante il n°10 inciso sulla placchetta d’acciaio; sono passati sei giorni. Un aereo a eliche rulla sulla pista destinazione Bangui, Centrafrica. 

Corsica, Francia, aprile 1995. Apro gli occhi, soffia un vento umido e forte, guardo nel buio. «Non dormite? Sigaretta?» L’orologio segna le tre. Fumiamo. Si aspetta. L’intermittenza di un punto di luce affiora in mezzo al mare – «Ecco laggiù, li vedete?» Immerso nell’oscurità, cerco d’indovinare l’espressione del volto di quest’uomo che non conosco. Il binocolo in mano, a gran passi sulla sabbia dura, fruga l’orizzonte. «Stanno passando il capo proprio adesso, a occhio un miglio da dove sono stati paracadutati stanotte…» – Ora vedo gli occhi scuri fissare un punto preciso, al largo della costa: «­­ –Tanto come toccano terra hanno ancora da farsi cinque ore di marcia …». Mancano quattordici ore al termine della Synthèse–48h, un brevetto che pare un rito di passaggio.

Al buio, su questa spianata battuta dal vento, l’odore delle alghe gettate sulla sabbia, invade il mio respiro. Il mare disegna dei semicerchi di schiuma sulla riva e poi li cancella. 

Fine Giugno 1995, alle 11h34 il Battaglione francese sbarca sulla banchina di Plocé in Croazia. Seguono giorni di attesa negli hangar del dock. Sotto l’altissima volta metallica la notte leva un’onda che respira nel sonno di mille-duecento Legionari. La missione questa volta è la guerra. Non ci sono notizie e le ore una sull’altra cadono sui giorni immobili. All’improvviso l’inesorabile spalanca una prospettiva a fondo perduto: il contingente smobilita e si lascia la Croazia con l’orizzonte sul mare. Otto in fondo a un blindato, un casco di due kili e l’antiproiettile di dodici, undici ore di trasferimento cristallizzano nell’incoscienza la pista “logistica” di Trebisevo. La sera il campo è levato nell’erba alta di un prato verdissimo. L’indomani durante la prima marcia di ricognizione, raccolgo dei fiori accanto a un campo minato. Trentadue ore dopo, lasciati i fiori in un bicchiere, riparto. Mentre salgo su un altro blindato qualcuno grida «Dovete tornare quando rullano i tamburi; tornare lassù!».

Due giorni dopo sotto la pioggia equatoriale, due camion militari risalgono la pista che taglia le colline di una foresta. Dalla panchina di legno guardo la terra rossa bagnata scivolare sotto le ruote. Un Legionario giovanissimo domanda «Ci siete stata in Bosnia? Non è incredibile come la pista di Regina somigli alla “logistica” di Trebisevo? Ma sì, davvero tutto preciso, identico, colle palme al posto dei pini. Tanto là o altrove, noialtri legionari siamo ovunque lo stesso!»

Settembre 1995 Bosnia Erzegovina, Monte Igman: sono di ritorno, sotto il cielo livido, il campo è uno sterro scosceso di fango nero. Scorgo il bouquet, seccato e intatto sul tavolo del comandante. Come in giugno la seconda missione in Bosnia precede di qualche giorno la seconda in Guyana, immediatamente successiva. Non è una coincidenza: prima di ripartire per Regina, sono stati raccolti tre pugni di terra in un contenitore di cuoio, il colonnello A.L., Comandante del contingente lo mette tra le mie mani con un’impercettibile velatura della voce «c’è una missione per Voi: consegnare la terra del Monte Igman ai camarades del Terzo». Durante quarant’otto ore trasporto quel pezzo di suolo di guerra sino a Regina; al mio arrivo al campo un plotone sta aspettando già schierato: eseguo la consegna. Nell’aria della foresta il Comandante, capitano C., depone il contenitore sotto al tricolore francese, poi sull’attenti saluta quella terra in un altro emisfero. 

N’Djamena, 14h15 Dicembre 1995. Dalla finestra socchiusa il sole invade la stanza; una polvere luminosa ricopre ogni cosa. L’ufficio è deserto e da un tavolo ingombro d’incartamenti, la sedia del colonnello C.B. mi guarda vuota. Attendo in piedi. Qualcuno apre la porta. Avanza lentamente. Lo sguardo fa il giro della stanza. Gli occhi sfuocati per una frazione di secondo incrociano i miei. Cucito sull’uniforme, leggo il nome del comandante del battaglione. Abbozza un saluto formale, poi si gira e come se fosse altrove la bocca articola delle parole: «Abbiamo perduto un uomo. Questa mattina il brigadiere-capo Brabakaran è deceduto durante una missione. Una mina. Sposato. Due bambini». Segue un silenzio. «Il vostro programma subirà qualche variazione. Sarà uno strano Natale. Benvenuta tra noi».

L’indomani dopo la veglia assisto alla funzione funebre senza macchine fotografiche; osservo davanti a me i crani rasati dei Legionari e i profili di quelli schierati nelle file accanto. Qualcuno serra le mascelle. 

E’ il primo Natale che trascorro lontano; poi penso al brigadiere-capo Brabakaran che non ho conosciuto, penso al Natale della sua famiglia in Francia e a questa strana famiglia di uomini riunita qui. 

Seguono altri giorni nel forte quadrato di Abéché in mezzo al deserto, settanta due ore, le ultime di dieci mesi indicibili. 

Il Transaal decolla, a volo radente effettua un secondo passaggio sopra la pista. Delle mani salutano, poi scompaiono dalla vista sulla terra che si allontana.

DELL’ARTE E DELLA MORTE

Autovía de Andalucía, Autovía de Extremadura, Autopista del Sur, Red de Carretera del Estado, Ruta de la Plata, Ruta del Toro. Strade, autostrade, sterrati, girano, salgono, scendono, corrono innanzi. Un nastro grigio, nero la notte, al centro s’inseguono rapidi segmenti bianchi, poi una linea continua, ora fugge nel retrovisore. 

Rive di mare, il bordo di un fiume, colline, l’ombra delle sierras; terre di pietra e città bianche che attraverso sempre vuote, calcinate di polvere nel soffio infuocato dell’estate: Sevilla, Sanlúcar, Jerez, Higuera, Trebujena, El Bosque, Segovia, La Algaba, Alcalá, San Roque, Antequera, Aracena, Tarazona de la Mancha, Almería, Linares, San Sebastián de los Reyes, Villaluenga del Rosario, Andújar, Salamanca, Piedrabuena, Torralba de Calatrava, Guadalajara, Talavera, Algemesí, Málaga, Pozoblanco, Abarran, Zafra, Hellín, Segura altre ancora. Guido ogni notte. 72.000 Km in cinque mesi. 

L’orizzonte lontano, il cielo compatto, teso e secco. Alte luci accecanti, zone d’ombra impenetrabili, livelli di contrasto smisurati, non facile in bianco e nero senza spezzare la curva tonale del visibile; in questa Spagna di contraddizioni lo sguardo registra frammenti inconciliabili e indissociabili frantumi. 

Dal fondo della memoria emerge un ricordo: Carnevale 1969, mio fratello Alessandro, quattro anni cammina vestito da torero accanto all’orlo della sottana della nonna lungo una passeggiatadella Riviera. 

Adesso qui, su questa gradinata sto per assistere per la prima volta a una corrida (ne vedrò settantadue). Che cosa sta succedendo? L’aria si muove dentro un’agitazione calda e pervasiva, sensuale; qualcosa di colorato, rumoroso e assieme raccolto, anzi nascosto. Tutt’attorno, donne colle bocche rosse di trucco, parlano, ridono, camminano vistose. Là dove intendo entrare le donne restano fuori. 

Dinanzi a una corrida nessuna cosa è quella che appare, nessuna evidente, nessuna scontata: né quanto s’immagina, né ciò che si vede di quanto si guarda. Inalienabili codici di un’altra civiltà, questi segni non li posseggo. Guardo cosa gli occhi vedono: al centro dell’arena, perpendicolare alla sua ombra il torero leva dal suolo un disegno trasparente; i gesti, precisi o scomposti, scompaiono nel momento in cui si compiono. Gli occhi vedono un mosaico di passi cancellarsi l’un l’altro in una danza sfrenata. Sole certezze sull’istante che avviene, la solitudine e il terrore di ogni torero dinanzi alla carica di un toro di settecento chili, tecnicamente dinanzi alla propria morte. L’esistenza tutta gira sul cardine di quell’attimo. Ortogonale all’orrore di quella scheggia di tempo, il torero si appropria l’inconsistenza dell’aria per imprimervi una forma perfetta che il vento soffia via. Senza neppure cercare di spiegarmi questa misteriosa trascendenza e di là da ogni retorica, voglio vedere quanto è invisibile di ciò che si vede, che cosa c’è dietro, prima, dopo e tutt’attorno. Vedere che cosa a vent’anni intaglia nei tratti del volto di un torero una maschera divorante d’irreversibile vecchiezza.

DEL FUOCO

Bronx N.Y.C. Aprile 1997 – 05h14. Tace la voce del fuoco. Il tumulto si dissipa tra le grida sparse, l’acqua che scroscia nel rumore delle scale meccaniche ancora in funzione, i ferri che frugano i soffitti sfondati e i vetri che continuano a precipitare infrangendosi sull’asfalto. Figure concitate muovono nel buio, i gesti febbrili, i volti lividi sotto al casco di cuoio. Nella notte che recede, sventrato, un palazzo di sei piani disegna nel cielo un’ossidiana irta di guglie. 

Qualcuno avanza a gran passi, la testa gettata all’indietro; irriconoscibile, quest’uomo che ora parla forte e gesticola dinanzi a me, lo conosco. Pare impossibile sia lo stesso che per giorni ho visto andare e venire con le bretelle attorcigliate attorno ai fianchi, il mug con il caffelatte stretto in pugno. Sebbene le chiamate si susseguano incessanti – sino a ventidue su ventiquattro ore –, in eterna attesa, la vita del firehouse è un’ansa cava nello spazio-tempo. Un codice alfanumerico telegrafico identifica la natura di ogni chiamata: esplosione. Suicidio. Malore. Rissa. Sparatoria. Incidente stradale… Talvolta compare una seconda specifica – casualties – vittime. Fuoco, più rara, è accompagnata dal codice che ne definisce l’entità. Dopo le catastrofi, scesa la tensione dello sforzo, l’adrenalina della paura, capita che alcuni si sfrenino in aneddoti e risa fragorose nel bel mezzo della strada. Scandalo. Piovono lettere di protesta sulla città: «come possono questi mostri scherzare sulle nostre disgrazie!». 

Il fuoco dei pompieri non rifulge nello sfarzo delle fiamme, un’oscurità senza fondo è il tetro fondale di quel teatro e le esercitazioni di orientamento e coordinazione motoria con la maschera cieca, costituiscono il fondamento della formazione all’Accademia del Fuoco

Di generazione in generazione, si è pompieri per tradizione o per vocazione: lontano dai fasti, in una misteriosa grandezza d’inconoscibili miserie, alla fiamma dei giorni.

FORESTE / DEL FUOCO II

Una popolazione carceraria di centocinquantamila uomini sull’estensione del territorio, in California esiste un programma di riabilitazione destinato ai prigionieri a basso rischio. Trentatré Conservation Camps coinvolgono sino a duecento “pompieri-forzati” per campo. Le “prigioni senza mura” costituiscono parte integrante del dispositivo operativo di sicurezza e protezione ambientale, per incendi forestali, terremoti, alluvioni, inondazioni e altre calamità che assediano questa parte degli Stati Uniti. 

Un dollaro al giorno tutti i giorni, un dollaro l’ora durante le operazioni. Un albino nero, gli occhi socchiusi, parla sottovoce seduto sulla branda. Gli manca l’anulare della mano sinistra. «All’inizio quando sbarchi a Susanville sei un poveraccio. Da un giorno all’altro in mezzo a delinquenti veri, ogni ora che passa sei peggio di prima. Ti dici che non uscirai mai più». Nel 1997 il carcere maschile di Susanville conta più di duemila prigionieri. Qui, due volte l’anno si compiono le selezioni per il programma di riabilitazione. M.R., un veterano della massima sicurezza, mi accompagna. Sul volo da San Francisco non smette d’intessere i racconti delle sue gesta carcerarie. Atterriamo a Susanville alle 07h45 nell’aria tagliente. Il direttore del penitenziario mi squadra e porgendomi un documento, ingiunge di leggerlo con la massima attenzione. Dovrò firmarlo. Leggo la lista interminabile dei Diritti del Prigioniero, la minima infrazione è penale. In fondo alla terza pagina, a lettere capitali c’è una clausola in neretto: «qualora il visitatore incorresse in un sequestro all’interno della struttura non sono previste procedure di soccorso». Appoggio il documento sul vetro che copre la scrivania, lo firmo e sollevo lo sguardo. Il direttore mi sta fissando. Anticipa la mia domanda – «Come misura preventiva si tenga ai bordi del quadrilatero centrale, sempre sotto tiro dalle quattro torrette. Sconsiglio di sconfinare verso altre zone. La sua visita è annunciata e domani saranno tutti là fuori… M.R. avrà cura di indicarle i gruppi che hanno firmato le liberatorie e i settori da cui tenersi alla larga… Eviti in tutti i modi il contatto ottico diretto con i prigionieri.»

Nel brivido di un ricordo rivedo chiudersi con un colpo secco la griglia d’acciaio dell’entrata del Lager Obukhovo Sezione Criminale Maschile, San Pietroburgo 1994. 

L’indomani alle 13h30 seguendo una competizionemi accorgo che siamo vicinissimi alla zona “proibita”. Ondeggia una strana agitazione. Procedo. E’ un attimo. Del fuoco precipita da due finestre, per una frazione di secondo vedo qualcosa che non avrei mai voluto vedere. Un walkie-talkie in mano, M.R. mi tira di colpo per un braccio. Serrando le dita in una morsa sibila «Vieni ora – allunga il passo, non fermarti e non girarti per nessuna ragione!». 

Due giorni dopo dentro a un van blindato si procede attraversando alte colonne di fumo sopra uno sterro riarso. Tra le mani calzate di cuoio carminio i forzati stringono gli attrezzi: seghe rotanti, accette, picconi… Sul sedile anteriore con il tenente, M.R. è di spalle oltre al vetro. Un rosso basso e robusto con la canna del piccone batte dei colpetti misurati sul pavimento metallico. Sorride e mi guarda. «Che c’è? Dì che ci hai paura. Un portoricano, la barba che copre parzialmente il volto sfregiato, interviene – «Quando si arriva nei posti con ‘sti arnesi non è che faccia bella impressione. La gente guarda da dietro i vetri». Il ciuffo sugli occhi, un biondo interrompe – «È che là fuori nessuno ti considera. Qui è tutto il contrario. Ogni cosa è importante qui. Che se uno di noi sbaglia, qui siamo tutti fregati. Qui per la prima volta capisci che anche tu sei importante per qualcuno». Ora tutti vogliono parlare – «Parlo io» taglia corto un gigante con le sopracciglia spioventi sugli occhi miopi «quando noi si finisce un’operazione, ci crede ci ringraziano? Si passa per i paesi e mettono fuori dei cartelli: GRAZIE RAGAZZI. Proprio così. Scritto grande. Qualcuno viene fino fuori a salutarci. Di lontano però, che mica li lasciano avvicinare. “Grazie” a me nessuno me l’aveva mai detto» Poi tutti tacciono. 

Gli occhi fissano qualcosa nel fumo oltre le sbarre rosse del finestrino, il furgone rallenta, siamo quasi arrivati. 

Da un angolo si leva ancora una voce che articola con voluta cura ogni parola. «Vede, mi permetta di dirle, qui non c’è nessuno che si sogni di fuggire. Questa esperienza, capisce, è un’occasione unica. E’ che succede qualcosa. Sai di essere migliore. Non degli altri, migliore di te.».

DEL MARE

Mallaig, Scozia, 6 marzo 1999. Sotto i rovesci di grandine che tempestano la banchina e i ponti delle barche, il vento disperde il grido dei gabbiani in un volo incerto. Nell’aria l’odore di corda e catrame. Normalmente il porto è un continuo via vai di urla, un fracasso di ferraglia che sbatte, blocchi di ghiaccio, carrucole e bidoni che imbarcano e sbarcano, seghe e motori che raspano nel rumore della risacca, incessante contro il molo. Stamattina il porto è deserto. Dirigo i passi verso il centro del villaggio. La missione è un edificio celeste di legno dipinto, con un tetto spiovente, rosso lampone. Dietro ai vetri appannati, uno stanzone luminoso che sa di cucina ogni domenica accoglie una folla festosa. 

I pescatori, il berretto di traverso, trascinano per la sala gli stivaloni bagnati lasciando sul linoleum grandi chiazze d’acqua. Giovanotti dagli occhi luccicanti lanciano sguardi sfuggenti da dietro le ciglia chiare. Le guance vermiglie, ragazze mingherline si sbandano tra le donne un po’ grosse, ingombre di bimbi piagnosi e infagottati. E’ tutto un atteggiare di spalle, un guardarsi con l’aria di niente, un continuo bisbiglio tra le risa smorzate. Tutto un mondo che qui comincia e finisce. In settimana i pescherecci escono prima dell’alba intorno alle quattro. Tra il rollio della chiglia e il tuono del motore si dorme un poco durante il primo tragitto. Poi le giornate corrono sulla cadenza delle onde, la lontananza dell’orizzonte, il thè nero che si beve fumante. Ogni levata rovescia sul ponte un mobile tappeto screziato in un vasto rimestare di pinne opaline, chele, branchie e creste puntute. Tra le code dentellate, grossi scampi scivolano impacciandosi nei filamenti di scomposte meduse mentre i granchi bianchi s’intraversano sul dorso delle razze, punteggiate di nero come leopardi. Rosate capesante colano una bava vischiosa tra le aguglie azzurre in un agitarsi di tombarelli che spuntano sparsi tra le aringhe e le sogliole e ancora altri pesci, pallidi, vetrosi e mai visti. Un molle risucchio bagnato che inchioda lo sguardo come un quadro di Pollock.  

Nei pescherecci Ring-Net la cabina sta sul fondo della chiglia, a poppa, accanto alla sala macchine. Quando le onde prendono la barca in un maglio convulso, chi non ce la fa si corica in questo ventre impestato di nafta, dove il beccheggio è più fondo e il rumore infernale. 

Le cuccette sono esigue cavità, longitudinali alle pareti. La testa sul cuscino freddo, si chiudono gli occhi allungando le gambe sotto un ammasso di coperte umide. Oltre la cortina sintetica, la luce rimane accesa. Gli occhi spalancati si resta così. Poi finalmente, ci si addormenta come precipitati dentro una tomba. Le ore si sfaldano. 

D’un tratto il motore cambia tonalità lacerando l’incoscienza. E’ il segnale, un’altra levata. 

Oggi, per la prima volta dopo quarantadue giorni, il mare è un cerchio luminoso. Sull’alba immobile, si levano lontane scogliere verticali. Al largo conto sette pescherecci che trainano sulla linea dell’orizzonte. Donald, leva l’indice e nomina a mezza voce le isole Ebridi «Barra, Eriksay, laggiù Coll e Tiree, qui a destra Skye e davanti a noi Uist Sud, che l’altro non si vede.» 

Rallento, infilo la rotonda a mano inversa. Talvolta ho l’impressione che la somma delle partenze non corrisponda al conto dei ritorni, i frantumi degli incontri dispersi, le strade che non ritrovano i passi. Imbocco lo svincolo in direzione Aberdeen. Accelero. 

Lerwick Shetlands, 30 marzo 1999. Qui quella nozione di comunità trovata a Mallaig è scomparsa. La gente ringhiosa se ne sta muta per i fatti propri. E’ tutta una storia complicata e poco edificante di gelosie e rancori per la compravendita dei permessi di pesca e pesci che non potrebbero essere pescati, rigettati a mare, morti. Qualcuno mi aveva parlato dei clonedykers, fosche navi-fabbrica, generalmente russe. 40/50 uomini imbarcati, sei mesi di fila senza toccare terra. Si dice talvolta compaiano all’ancora sullo sfondo della baia di Lerwick. Lawrence è l’agente che “tratta”con i russi. In canottiera nel cortile del cantiere, la voce esala il fumo dell’aria fredda. Lawrence parla una lingua indecifrabile. Tra diverse gesticolazioni capisco «…Dopodomani …60 metri. …Moormansk.» Il nome russo del peschereccio lo scrive in un angolo della pagina di un quotidiano, lo strappa e me lo tende: Leonid Novospaskiï leggo. Sempre gesticolando ricomincia a urlare «Stanotte …Parlo, Comandante …Io parlo» indica la sua bocca che si muove «…Capito?» Poi piazzandomi davanti agli occhi due dita aperte a V. «Due bottiglie – 2 – Scotch». Annuisco. 

9h45, 24.8 Fahrenheit / meno 4° Celsius. Uno Zodiac salta sulle onde tra gli spruzzi ghiacciati. Ci avviciniamo raggiunti da un odore che rinuncio a descrivere. A poppa di un peschereccio fuori scala una rampa arrugginita si spalanca come una gigantesca bocca. Lawrence si sbraccia agitando le bottiglie. Qualcuno, la testa dentro un colbacco nero, lancia una cima di canapa. Ci arrampichiamo su per una scala di corda. Si scivola. Poi finalmente si emerge sul ponte. Qui le parole mancano. Manca il respiro per dire la scena dinanzi ai miei occhi. Più tardi di fronte al bortsch color sangue guardo i vasetti di terracotta accanto alle finestre sigillate. A spasso per tutti i mari, dentro quei vasi c’è la terra di Russia.

Isola di San Pietro, Carloforte, Italia, Aprile 1999. 

Uno scoglio verde a Sud-Ovest della Sardegna, San Pietro è una colonia. Sul traghetto che congiunge Portoscuso (Sardegna) a Carloforte, capoluogo in isola di San Pietro, Giuliano, primogenito della famiglia Greco, signori della tonnara «La Punta», mi spiega che cos’è la mattanza dei tonni. 

Parla nel vento che sparge sulle onde il profumo inconfondibile, secco e amaro, del mirto. «C’è il Raïs, capo della ciurma di mare: i Tonnarotti, i “matador” dei tonni, che la tonnara qualcuno la paragona alla corrida. Oltre alla Musciara, la barca del Raïs, la flotta della mattanza è composta di diverse imbarcazioni: i Palischermotti, le Bastarde, il Barbariccio e un Vascello

Ci sono tonnare d’andata e tonnare di ritorno. La nostra è d’andata, ossia è attiva al passo di uscita quando al mese di maggio, i tonni gravidi, seguendo le correnti migratorie, nuotano in direzione Est; la tonnara è un sistema di stanze sottomarine, sulla rotta del loro passaggio; immaginati delle murate verticali di rete, tese dal fondo alla superficie del mare. Dapprima i tonni incontrano la coda, una murata tirata perpendicolare alla costa che li induce a virare verso la bocca della tonnara. Entrati, un sistema di chiuse dette porte, si aprono e richiudono “a ventaglio” mentre i pesci passano da una stanza alla successiva, finché raggiungono l’ultima, detta la morte. Questa, a differenza delle altre stanze, ha un fondo e come tutto il sistema si leva a braccia». 

Arrivati allo stabilimento attraversiamo un capannone tra montagne di reti ammucchiate. Cerco di non inciampare nei cavi e le cime di canapa allungate in tutte le direzioni. Nel cortile, al centro di un edificio color sabbia, si attorcono filacce di juta, trefoli di ramia e matasse di filo. Una fila di braccianti in piedi sta cucendo nel controluce della sera. 

Il lavoro in mare comincia e finisce sempre nel buio e le settimane dei Tonnarotti non conoscono sabato né domenica. Gli uomini di Portoscuso e quelli di Carloforte sono tutti anime di uno stesso padrone. Anche se lavorano assieme sono ciurme ben distinte e in tutto differenti: “razza”, tradizioni, credenze, linguaggio, tecniche e ritmo di lavoro e metodo di applicarlo. Sardi, è questione di fierezza atavica, il possesso del mare della loro terra. Carlofortini, è l’orgoglio di chi sente un dovere esercitare la propria supremazia sulla terra conquistata. Il mare, con i suoi pesci condivisi li unisce e irrevocabilmente separa. 

Ci sarebbe molto da dire sui tonni. In bianco-nero, il sangue chiama qualche parola. Un sangue scuro che tinge le mani, macchia le unghie e passa sotto la pelle. Colloso quel sangue appiccica capelli e vestiti. Quel sangue oleoso quando si levano le reti fa scivolare sui bordi fradici delle barche e, dalle acque morte del Vascello, emana un odore che prende la gola. Al sole, quando secca, quel sangue compone sulle lastre di pietra della banchina ritorti serpenti ramati che si confondono con la ruggine.

Sicilia, Portopalo di Capo Passero, Italia Giugno 1999. 

I remi tagliano l’onda, sfilano lungo i fianchi neri della musciara immergendosi con una leggera torsione appena sotto al filo della superficie. L’acqua si apre sotto la chiglia che la solca. A picco del cielo senza vento ondeggia intatto lo smalto del mare. L’orizzonte nella calura si stempera in una linea indecisa.

In piedi a poppa, calzato di mocassini di cuoio intrecciato, dritto come un pioppo Don Francesco Rosario Asaro di Castellamare del Golfo, è il Raïs. Sollevata la paglietta, ravvia i capelli immacolati con le dita. Don Rosario incarna l’autorità di chi comanda; il secondo, orbo del destro, glauco come un opale, parla per lui colando uno sguardo traverso sul bronzo della voce. Qualche anno prima, risaliti dalla Sicilia, loro avevano armato la tonnaradi Carloforte. Don Pietro Bruno di Belmonte, con un’interminabile lista di titoli e onorificenze è qui innanzitutto il Signore del Mare. La rimessa in funzione della tonnara di Capo Passero è per lui una sfida disperatamente romantica alla fine del suo secolo; un grand jeu come lo definisce, che da’ lavoro a una sessantina di anime e di che scommettere la gloria e l’onore del “suo” paese. Sulla punta di Capo Passero, tallone Sud-Orientale della Trinacria, lo Ionio e il Mediterraneo s’incrociano tra violente correnti, in superfice non una ruga. 

Assiomi del paradosso, come l’anima della Sicilia, la sua sanguinosa dolcezza, questo vento minerale esala dalla terra e scivolando incandescente sulle onde, tutto solleva e tutto cancella.

Ora, seduto alla tavola dove tutti si radunano per mangiare, qualcuno gesticola brandendo un coltello – «O’ ma che ciai da guardare? Eh–mangia no. …‘L pane, …le cipolle. Prendi qua». Il coltello incide la cipolla rossa e una mano coperta di una fitta peluria mi porge, stretto tra due dita, uno spicchio luccicante. Gli altri, gli occhi nel piatto masticano in silenzio. Tirato sul fieno, la bocca spalancata, qualcuno fila il respiro del sonno. Nell’archeggio delle cicale, fuori della frescura di queste pietre la terra esala un calore carnale. Le canne si rizzano sparse trasalendo nell’ora immobile. Oltre, più nulla. Il mare tutto attorno è uno schermo viola sotto il cielo di fuoco.  

I tonni non vennero mai. Mai tanto che io fui là. Domani riparto e anche se posso indovinarlo, non conoscerò l’epilogo di questa avventura. Senza quanto accaduto, malgrado nulla accadesse, forse non avrei mai compreso niente di quanto è stato o non è mai stato. A Pirandello la risposta.

DEL MARE II

N.R.P. Sagres, Lisbona Portogallo, maggio 1999. 

Oggi comincia il viaggio – Lisbona, La Coruña, Anversa, Rouen, Azzorre – della nave scuola Sagres tre alberi della Marina Portoghese. Effettivo di bordo: centottanta-cinque imbarcati. Tre mesi di navigazione. Questa mattina, non c’è quasi nessuno. I pochi in servizio strappano le ultime ore a terra. Sul ponte, incontro il quartiermastro dell’albero di maestra. Sbarcando dichiara dalla passerella «Vado a fare un figlio a mia moglie e torno!» 

Scandito dai fischi ascolto questo codice sonoro che da oltre un secolo, regola le manovre di ventitré vele auriche e ogni azione della vita di bordo per due centinaia di uomini. 

N.R.P. Sagres, 22 luglio 1999; 45°28′ 0 N, 0 8°44’E

Nel ripetersi di giorni tutti uguali, il cielo alza e riabbassa il suo cerchio d’orizzonte. Da giorni non s’incontra più né un insetto né un volatile. In questo ventiduesimo giorno di luglio si naviga su lunghe onde metalliche sotto una volta di nuvole basse squarciata dai raggi del sole. Di colpo un’agitazione pervade la nave. L’equipaggio si pressa contro il parapetto a babordo; si passano i binocoli: tutta invelata una nave interrompe finalmente l’arco del mare. Paralleli e lontani sulla medesima rotta i due velieri procedono in direzioni opposte. Qualcuno grida: Amerigu Vesputchi... Infine, le murate fianco a fianco a due miglia di distanza, Amerigo Vespucci chiama Sagres con il morse luminoso, Sagres inalbera un nastro di bandiere e risponde trasmettendo il proprio indicativo internazionale nel codice dei segnali marittimi. Nel laconico balletto che declina il ventaglio dei saluti previsti in tali occasioni, si verifica un “fuori programma”. Il comandante mi fa chiamare in sala comando e mi chiede di trasmettere in Italiano il seguente messaggio «Il comandante di Sagres saluta il comandante dell’Amerigo Vespucci e il suo equipaggio». Schiarisco la gola e non senza emozione, sfodero la mia migliore dizione. Trascorrono i secondi e sotto quel cielo lontano, ci raggiunge la risposta di una bella voce italiana. Non traduco per gli ufficiali immobili tutt’attorno «Dal Comandante dell’Amerigo Vespucci Buon Vento a voi Sagres». Fu tutto; tutto e nulla in quelle poche parole. 

Un marinaio gira un ultimo sguardo al veliero che scompare, poi sputa in acqua e si allontana rialzando il bavero del tre quarti

Sospesa a un’alternanza di cieli la nave è un organismo vivente che sulla dilatazione del tempo vibra nell’universo di ogni individuo imbarcato – cento ottanta cinque volte uno. Rosei cadetti impacciati e alteri manobras scolpiti da fasci di muscoli scuri, volteggiano come acrobati appesi alle sartie; intere notti addossati alla drizza di prua fissano il divenire delle tenebre; gli occhi scintillanti, si slanciano su per le scale d’acciaio in cima agli altissimi alberi; scompaiono nell’incoscienza in fondo a una branda tenuta dalle catene nel beccheggio dell’Oceano. E oggi alle Azzorre mancano ancora due settimane. 

La Campana di Bordo suona sulle navi soltanto in tre casi: affondamento, incendio, uomo a mare; il 29 luglio 1999, alle 00h27 a 38°26’4 N / 0 19°19’8 sull’undicesima notte del viaggio di Sagres tra Rouen e Punta Delgada quella campana batte i suoi rintocchi impensabili. La procedura prevede l’immediato raduno sul ponte. Così come si è, giù dalle brande, cadetti, marinai, ufficiali sottoufficiali, meccanici, carpentieri, telegrafisti, cuochi, radiotrasmettitori, mozzi, sguatteri… – tutti – si precipitano in coperta.

Nuno Miguel dos Santos Marques – anni 25, dal 2 giugno 1997 effettivo N.R.P. Sagres – durante il quarto notturno 00h00/04h00 precipita a mare dalla seconda verga di mezzana. Non avendo agganciato il moschettone ai cavi di sicurezza, testimoniano due compagni, perde l’equilibrio e cade nel buio. Dapprima colpisce di dorso il parapetto tribordo alla base delle scale metalliche indi la murata inferiore di testa; scomparso sott’acqua, probabilmente trascinato verso il fondo fuori conoscenza, qui stimato mt 4.200 di profondità.

D’un lampo le vele amarrate, tutti i fari accesi, lanciati i razzi e quattro boe luminose, due Zodiac e due scialuppe sono calati in acqua. Si cerca tutta la notte sul vasto sommovimento del mare. All’alba arrivano due Hercules della Forza Aerea. Inizia a piovere. Le scarpe di Santos Marques, rinvenute, giacciono sul ponte di comando, i lacci sfatti. 

Funereo, senza vele, in un convulso beccheggio, Sagres scandaglia lo stesso cerchio di mare per diciassette ore. I cavi delle sartie sbattono laschi alle crocette, i fischi seguitano a segnare i quarti sotto al cielo dilavato. Gli occhi sull’orizzonte nessuno trova la forza di articolare una parola. Alle 19h03 suona l’adunanza generale. 

Il Comandante di Sagres si rivolge all’equipaggio al gran completo. Gli tremano le mani. «Signori, Ponta Delgada è a 400 miglia dobbiamo abbandonare il teatro di questa sventura. Alle 21h00 con una cerimonia di addio saluteremo il nostro fratello scomparso. Stasera due corvette della Marina Militare sono in arrivo dal Portogallo e saranno loro a proseguire le ricerche». A 21h00: sulla latitudine 3821’8W ai piedi dell’Albero di Mezzana l’equipaggio in equilibrio sull’attenti oscilla nella risacca dell’Oceano. Come dentro una monumentale cattedrale tre colpi di cannone sparano contro il cielo. Una tromba suona: Il Silenzio, L’Onore ai Caduti, Il Risveglio

Poi, inalberato il nero sopra al bompresso, Sagres issa tutte le tutte le vele e fa rotta verso l’Isola di Sao Miguel.

La scomparsa di un corpo non attesta il decesso e ancorché non vi siano altre ipotesi realistiche, di fatto, differenza drammatica e sostanziale, Santos Marques rimane ufficialmente un disperso.

Durante i primi giorni di viaggio avevo scattato una polaroid di tutto il personale imbarcato, riportato il numero di matricola e raccolto la firma di ognuno accanto alla propria immagine. Questa mattina il Comandante mi chiede di consegnargli la Polaroid di Santos Marques, estraggo dall’armadietto metallico la scatola blu, dove ho archiviato le immagini in ordine alfabetico. Nella fila della lettera S trovo la fotografia di Miguel. 

Rivedo di colpo l’istante in cui l’ho scattata durante una manovra; riascolto la sua voce rispondere alla mia richiesta di firmarla articolare la parola «pois» (più tardi). Estraggo la fotografia e realizzo è l’unica non firmata.

Ponta Delgada Isola di Sao Miguel, l’alba. Dopo quattro settimane in alto mare appena i piedi poggiano sulla banchina le vertigini di un furioso mal di terra mi assalgono. Provo a camminare come sul vuoto sopra una folla di ricordi. 

Ai piedi di un vulcano e di montagne coperte di fiori che si levano alte in mezzo all’Oceano, adesso qui, dove i vichi affollati sboccano tra le acque calme di un porto lontano, il mio cammino è giunto al termine. 

FIGURÆ

Scandalosa, questa immersione in bianco e nero nei margini, nei bassifondi della nostra società idolatra e narcisistica, che il glamour anestetizza e che il reale annebbia. Più che disturbante, questa indagine: provocatoria e necessaria. Giudicate voi. Questa è un’epoca da divi, campioni e people: ecco qui, invece, gruppi anonimi, volti sconosciuti, coreografie involontarie e senza étoile. Questa è un’epoca femminile, parla di uguaglianza e diversità: ecco qui il maschile nudo e crudo, collettivi ruvidi e virili, ossi duri ben poco amabili. E questo è doppiamente fuori tempo. Mai Helmut Newton avrebbe commesso una simile caduta di stile, nel bene o nel male. Astenersi paparazzi. Eccoci fuori dal contesto. Siamo al di qua. Al di sotto. Dentro luoghi in chiaroscuro, marginali e disprezzati, di cui le copertine delle nostre riviste non si nutrono e di cui i nostri giornalisti non si occupano: scantinati che le nostre società del lusso hanno perso l’abitudine di guardare, fino a dimenticarsi della loro esistenza. Mettendoci di fronte a gesti, espressioni e nudità talmente naturali che ci appaiono oscene, allenati come siamo al trucco e all’artificio, Giorgia Fiorio recupera l’angolo cieco del nostro campo visivo. E, forse, quello di una civiltà. Che cosa vediamo qui? Vediamo dei corpi. Ma non dei corpi oggetto. Nodosi, muscolosi, vischiosi, neri come il carbone. Corpi sorpresi al lavoro, in azione, mentre sudano. Non concepiti per l’esibizione o lo spettacolo (tranne un torero in posizione da matador, di una bellezza enfatica e fin troppo eloquente).

Noi tutti, in Occidente, viviamo in società piene di protesi, algide e cosmetiche, che ignorano lo sforzo fisico, perché hanno dimenticato la trincea e l’aratro, la guerra del fante e la fatica del contadino. Come ricordava recentemente uno storico del servizio militare, «il maschio adulto francese di vent’anni ha certo guadagnato una quindicina di centimetri, dal 1914, ma ha perso in massa muscolare, rusticità e resistenza». Il nostro mondo urbano, troppo urbano, che tende ad abbandonare le officine per gli uffici e delega ai suoi immigrati la cazzuola e il martello pneumatico, si dà al culto della forma e della messa in forma. Porta anche il nudo alle stelle, ma è un nudo astratto e molto lavorato, anche se non lavora per niente. Vuole il corpo levigato, slanciato e pulito, il più possibile seducente, dunque ritoccato e adattato a nuovi look. Erotico e plastico, estetizzante, perfino siliconato e plastificato. Nello sport d’alto livello come nell’esibizione dei culturisti, la telecamera coglie la performance finale, non l’allenamento, il doping, la preparazione, da cui lo sguardo viene distolto pudicamente. Il corpo ideale per il nostro tempo è bello come un fiore reciso adagiato su una carta lucida — inodore e gratuito, liberato dal suo humus di lacrime e sudore. Niente di tutto questo, qui. La carne ritrova la sua pesantezza e l’incarnato la sua serietà.

C’è di peggio. L’egolatria sfrenata che regna ai nostri giorni colloca il corpo guerriero, sportivo o desiderabile, su un piedistallo, ma a una condizione: che la sua gloria sia solitaria e nominativa. Che faccia risplendere un nome proprio, una celebrità, un mostro sacro. Qui, invece, niente campioni, nessun eroe e nemmeno podi. Il gruppo è la sua propria allegoria. Scansando idoli e icone, non imponendo nessuna polena, nessun leader o vedette riconoscibile, emergono sotto i nostri occhi corpi multindividuali. Figure collettive senza testa, in cui lo spirito del corpo fa di ciascuno il gemello del proprio vicino, suo simile e suo fratello. Ecco portata alla luce, in tutta spudoratezza, una zona d’ombra silenziosa, arcaica se si vuole, che preesiste al nostro culto per i ricchi e famosi e precede anche la grande frantumazione moderna. In queste promiscuità, dove la distanza interpersonale — l’intervallo codificato e conveniente fra due individui – non è più rispettata. Aggregati primitivi, molecole ad atomi compatti, senza gerarchia, né protocollo, strane coagulazioni plastiche, in cui si srotola al contrario la grande narrazione della modernità, che ci racconta come si sia liberata, a forza, la persona dalle pastoie collettive, come da una fatidica opaca colla si estragga una sovranità. I nostri metafisici della libertà non sono quelli dello spirito del corpo, come viene qui restituito dalla crudezza di uno sguardo al limite dello sconveniente. Quindi, un certo imbarazzo, non troppo lontano dal malessere. Non sappiamo più bene in che cosa consista un’appartenenza, in che modo si produca l’intreccio di un noi, che non è — ed è ben lontano dall’esserlo — il plurale di un io. Valutiamo ciò che l’egocentrismo e l’autocompiacimento occidentale ci hanno fatto perdere di vista, e da dove viene il nostro smarrimento di fronte al ritorno a livello planetario di tribù ed etnie. Il grande affaccendarsi comunitario che agita i continenti — tranne l’Europa — ci prende alle spalle dopo due secoli di separatismo, e noi strilliamo come aquile davanti al semplice richiamo della più ordinaria, la più immemorabile delle condizioni: il gomito a gomito, il corpo a corpo disciplinare. 

Eccolo ancora più disturbato, il nostro contemporaneo, che i riflettori ingannano a forza di abbagliare, e così perde l’aiuto delle migliori fra le nostre mitologie. Monaci in cocolla di panno grezzo e cappuccio bianco, soldati con le sciabole sguainate, in pantaloni rossi e pennacchio…Giorgia Fiorio non ha messo in scena i grandi corpi devoti dello Stato di diritto e della Chiesa di Cristo, gli Ordini dalla sublime sobrietà, le Accademie ricamate d’oro, le Magistrature in porpora ed ermellino, bensì basse caste operose. Lavoratori del mare e del fuoco, della miniera, del ring e dell’arena, sobriamente professionali, senza alcun prestigio, senza nemmeno l’aura delle gang e delle mafie, soggetti come sono a umili funzioni produttive per distrarci, proteggerci o alimentarci.

Queste corporazioni, di solito costituite, non sono gli sventurati americani degli anni bui, quelli di Walker Evans e Dorotea Lange. Non sono nemmeno i monelli sfrontati, i carbonai e i venditori di palloncini dei faubourg di Parigi, alla Doisneau. Non sono poetici, né pittoreschi. Tra la folla e la banda, tra la «vile moltitudine» e il sale della terra: questi domini segreti non abbandonano l’ordinario. Da qui, uno sguardo neutro, un lirismo freddo, che non prende le distanze dal suo oggetto, ma non cerca neppure di stregarlo o sedurlo in nome di una connivenza razziale, etnica o messianica – ein Volk o classe eletta. La foto non canta la rabbia, la guerra, né l’odio. Non è al servizio di nessuna causa con l’iniziale maiuscola. Non magnifica e non svaluta. Non è lo sguardo affascinato, da proselita, di Leni Riefenstal, che esalta il Trionfo della Volontà sublimando con riprese dal basso i magnifici dei dello stadio, accademie iperboliche e dimostrative. Né la propaganda sovietica dei tempi d’oro, che inquadra gli atletici reparti d’avanguardia della classe operaia mentre sfilano sulla Piazza Rossa ai piedi del Politburo, risucchiati dall’avvenire radioso. Lo sguardo non è sprezzante, né aristocraticamente disgustato. Definiamolo post politico. Né patriota, né militante. Da voyeur? No. Semplicemente rispettoso. Sebbene, forse, ammirato. Ciò che potrebbe passare per un elogio, se non proprio della forza, almeno della fraternità virile, ai giorni nostri ci voleva una donna per osarlo. Per forzare la porta, in modo indiscreto, di tutti questi maschi riuniti fra loro. I gender studies avrebbero potuto prendere in mano la questione e le femministe lamentarsi contro l’autore, contro l’autrice. Queste foto di famiglia senza madri, sorelle e spose, se fossero state fatte da un compare, sarebbero virate in un’arringa pro domo sua, macista e fascistoide. Questo arma virumque cano qui non è opportuno, tanto più che non ci mostra né armi, né eroi in armi, ma piuttosto minatori e schiene sudate. Ci è voluta una certa faccia tosta, nonostante tutto, per alzare le vele su mestieri, vocazioni e recinti dove la femminilità non ha posto — la Legione straniera è ancora uno di questi, in seno a un esercito che mette all’ordine del giorno la femminilizzazione dei suoi quadri.

Ciascuno sa che, in materia di perseveranza, resistenza, obbedienza e padronanza di sé, le donne possono tenere testa a chiunque. La forza fisica non è la causa della loro segregazione millenaria, non più delle abitudini di un sesso di cui si dice che è debole solo per antifrasi, per illudersi. È semplicemente un tratto culturale, risalente a tempi molto antichi, e Giovanna d’Arco è l’eccezione che conferma la regola. L’essere che dà la vita non è fatto per infliggere la morte agli animali e tanto meno agli uomini. Niente donne nei mattatoi, fra i boia e gli scannatoli autorizzati. Assistere, sì; massacrare, no.

Questa divisione dei compiti in seno alla Città, fra la medicina e l’omicidio, l’infermeria e il massacro, risale alla preistoria. La raccolta di bacche e tuberi da una parte, la caccia grossa dall’altra. E nei nostri eserciti e nelle nostre gendarmerie le donne non fanno parte dei gruppi di assalto e non partecipano ai raid. Non è una questione di capacità, anche se gli ormoni sono differenti; la faccenda è innanzitutto di ordine simbolico. Ci sono vedove di guerra, vedove di pompieri che si sono sacrificati, vedove di pescatori morti in mare e di toreri sventrati. In questi campi ad alto rischio, il vedovo non è conveniente, e rimane molto improbabile. Giorgia Fiorio ne prende atto, sobriamente, e senza pathos, e di quest’analisi oggettiva, non proprio alla moda e forse politicamente scorretta, bisogna ringraziarla. Non è così frequente captare attorno a noi, e con un’arte così ben padroneggiata, l’ombra che la preistoria allunga sulla nostra modernità, quando tutto ci spinge a dimenticare i fondamentali indelebili del vivere — e dell’operare — insieme.

(traduzione di Gian Luca Favetto)

Les figures de la photographie

La boxe, la mine, l’armée, la corrida, les incendies, la mer : tous ces termes désignent le contexte des différents thèmes documentaires traités par Giorgia Fiorio. Mais décrivent-ils pour autant le vrai sujet des photographies ? Ne serait-il pas plus juste de parler de boxeurs, mineurs, soldats, toreros, pompiers, marins, et par conséquent des hommes ? Groupes qui, en l’occurrence, ont été méthodiquement explorés par la photographe. Son travail ne met-il pas également en évidence ce qui lie ces hommes aux divers éléments auprès desquels ils construisent leur existence ? Relation fusionnelle avec la terre, l’eau et le feu, mais aussi l’animal, ou encore, plus abstraitement, avec l’idée d’un ennemi à combattre. Il y a enfin cet esprit communautaire qui est perceptible dans les images et se traduit par des gestes et attitudes confraternels, complices. Et cette familiarité, intimité parfois, que Giorgia Fiorio donne à voir, passe d’abord par l’image du corps. Car celui-ci, avant toute considération sur la condition ou la personnalité de ces hommes, forme la figure centrale, la pierre angulaire du projet photographique ; figure qu’il ne fallait bien évidemment pas entendre ici dans son sens restrictif et limité au visage, d’autant que les personnages qui composent cette grande galerie d’images demeurent anonymes. Dans l’instant de la photographie, le corps est détaché de son contexte, ou au contraire étroitement imbriqué dans celui-ci ; il est dénudé ou habillé de parures magnifiques. En bref, il donne le rythme de chacune des séquences de ce projet. Il porte la figure du discours, il en est l’instrument, tout comme le mot dans la phrase. 

Un discours qui est avant tout visuel, plastique. La photographie sublime les formes de ces différents corps offerts à la photographie ainsi que leur profil et leur volume ; elle saisit des instants significatifs de leur mouvement. Qualité servie par un sens très sûr de la lumière, une maîtrise du noir et blanc, de ses valeurs et de ses nuances, une précision dans le cadrage et la composition. Mais derrière la magnificence de ces corps, on peut déceler des indices qui renvoient à des valeurs morales et des sentiments, c’est-à-dire des fragments d’humanité : le courage, l’endurance, ou au contraire le doute, l’inquiétude, la solitude face à l’épreuve. Il est aussi question d’amitié, de bonheur partagé. Quelques photographies esquissent même un récit. Il n’en demeure pas moins que la plupart de celles-ci décrivent ou évoquent la performance physique de ces individus. Les figures du corps dessinent la force, la puissance. Et le choix de chacune des corporations – à noter que dans corporation, il y a le mot corps – repose sur une vision archétypale de la force masculine. Qui d’autre que le soldat, le pompier ou le boxeur incarne mieux cette force ? Tout converge dans un même sens : la discipline aussi bien personnelle que collective et la hiérarchie sont à l’œuvre, elles font des hommes appartenant à ces communautés les pièces d’un système qui ne saurait faillir. La photographie illustre ici une perfection ; elle ne porte trace d’aucune faute, d’aucun écart de conduite. Nul grain de sable ne s’introduit dans cette mécanique humaine. 

Dans le projet que Giorgia Fiorio engagera par la suite et qui a pour titre le Don, on retrouve le même caractère méthodique de l’investigation documentaire, la même aventure au sein de communautés dispersées à travers le monde, le même goût pour le travail sur une longue durée : près de dix ans pour mener à bien chaque projet. On retrouve ce même intérêt que la photographe porte aux univers clos et obéissant à des règles strictes. La figure du corps est également mise en avant. Mais ce qui cette fois diffère, c’est son motif – le terme est à prendre ici dans ses multiples sens : le sujet de l’image, ce qui est à son origine, voire le principe de répétition – ; diffèrent également le destin des personnages photographiés et le contexte dans lequel ils évoluent. Le corps est traversé par d’autres énergies, plus spirituelles que physiques. On pourrait même envisager un jeu de contraires : dans le premier cas – celui des communautés masculines -, la force morale est au service de la puissance physique ; alors que dans le « territoire » investi ensuite par Giorgia Fiorio, la maîtrise du corps sert une démarche spirituelle, d’ordre religieux.

Resterait à évoquer ici la notion de figure d’un point de vue rhétorique. Aux dires des sémiologues, toute photographie d’auteur, comme tout texte littéraire, s’appuie sur une forme de rhétorique. Elle est en effet porteuse de symboles, de métaphores renvoyant à des réalités qui peuvent s’inscrire hors du champ de la prise de vue, hors de son cadre, ou à des abstractions : elle convoque alors ce qui n’est pas nécessairement de l’ordre du visible. Plus généralement, le sens d’une œuvre photographique se joue aussi derrière ou entre les images, dans ce que l’on peut lire entre les lignes, dans un intertexte. Qu’en est-il alors de ce vaste corpus visuel constitué par Giorgia Fiorio ? Que souhaite-t-elle nous livrer au-delà d’un témoignage documentaire sur ces communautés de boxeurs, mineurs, soldats, toreros, pompiers et autres marins ? De toute évidence, il ne s’agit pas non plus d’un point de vue visant à idéaliser la gente masculine. En regard des projets qui vont suivre, ce travail apparaît davantage comme l’une des étapes d’une longue recherche vers la compréhension de l’être humain et dont la photographie est l’instrument. 

Gabriel Bauret, Les figures de la photographie, dans FIGURÆ, par Giorgia Fiorio, Arles, Actes Sud, 2013 

FIGURÆ

Scandaleuse, cette plongée en noir et blanc dans les bas-côtés, les bas-fonds de notre société idolâtre et narcissique, que le glamour anesthésie et que le réel offusque. Plus que dérangeante, cette enquête : provocante et nécessaire. Jugez plutôt. L’époque est aux vedettes, aux champions et au people : voici des groupes anonymes, des visages inconnus, des chorégraphies involontaires et sans danseur étoile. L’époque est féminine, parle mixité et parité : voici du masculin à cru, des collectifs mâles et rugueux, des durs à cuire fort peu ravissants. Cela est deux fois intempestif. Jamais Helmut Newton n’aurait commis pareille faute de goût, bon ou mauvais. Paparazzi s’abstenir. Nous voilà sortis du cadre. En deça. En dessous. Dans des lieux en clair obscur, marginaux et méprisés, dont ne se repaissent pas nos couvertures de magazine ni nos reporters d’actualité. Des sous-sols que nos sociétés de luxe ont perdu l’habitude de regarder, jusqu’à oublier leur existence. En nous mettant face à des gestes, des expressions, des nudités tellement naturelles qu’elles nous paraissent obscènes, dressés comme nous le sommes à l’artifice et au maquillage, Giorgia Fiorio réveille l’angle mort de notre champ de vision. Et peut être celui d’une civilisation.

Que voyons-nous donc ici ? Des corps. Mais non des corps objets. Noueux, charbonneux, musculeux, visqueux. Des corps surpris au travail, en sueur, à l’exercice. Pas du tout fait pour la montre ou le spectacle (sauf un torero en posture de matador, d’une beauté emphatique et par trop éloquente). Nous vivons tous, en Occident, dans des sociétés à prothèses, distantes et cosmétiques, qui ignorent l’effort physique parce qu’elles ont oublié la tranchée et la charrue, la guerre du fantassin et le labeur du paysan. Comme le remarquait récemment un historien du service militaire, « le mâle adulte français de vingt ans a certes gagné une quinzaine de centimètres depuis 1914, mais il a perdu en masse musculaire, en rusticité et en résistance ». Notre monde urbain, trop urbain, qui tend à quitter les ateliers pour les bureaux et délègue à ses immigrés la truelle et le marteau piqueur, s’adonne certes au culte de la forme et de la mise en forme. Il porte même le nu aux nues, mais c’est un nu abstrait et très travaillé, même s’il ne travaille pas. Le corps, on le veut poncé, svelte et propre, séduisant au possible, donc retouché et relooké. Érotique et plastique, esthétisé, voire siliconé et plastifié. Dans le sport de haut niveau comme dans l’exhibition culturiste, la caméra capte la performance finale, non le dressage, le dopage et l’entraînement préalables, dont on se détourne pudiquement. Le corps idéal du contemporain est beau comme une fleur coupée et couchée sur papier glacé – inodore et gratuite, délestée de son humus de sueur et de larmes. Rien de tel ici. La chair a retrouvé sa pesanteur, et l’incarnat sa gravité.

Il y a plus grave. Le tout-à-l’ego régnant place le corps guerrier, sportif ou désirable sur un piédestal mais à une condition : que sa gloire soit solitaire et nominative. Qu’il fasse resplendir un nom propre, une célébrité, un monstre sacré. Ici, pas de champion, ni de héros, ni de podium. Le groupe est sa propre allégorie. Émergent sous nos yeux des corps multi-individuels, déjouant l’idole et l’icône, que ne sommes aucune figure de proue, leader ou vedette reconnaissable. Des figures collectives sans tête, où l’esprit de corps fait de chacun le jumeau de son voisin, son semblable et son frère. Voilà mise en lumière, en toute impudeur, une zone d’ombre taciturne, archaïque si l’on veut, d’avant notre culte des notoires et illustres et même d’avant la grande déliaison moderne. Dans ces promiscuités, où la distance interpersonnelle, l’intervalle codée et convenable entre deux individus, n’est plus respectée. Agrégats primitifs, molécules à atomes compacts, sans hiérarchie ni protocole, étranges coagulations plastiques, où se détricote à contre-fil le grand récit de la modernité, qui nous raconte comment s’est dégagée, de haute lutte, la personne de ses entraves collectives comme s’extrait une souveraineté d’une glu opaque et fatidique. Nos métaphysiques de la liberté ne sont pas celles de l’esprit de corps tel que le restitue ici la crudité d’un regard aux limites de l’inconvenant. D’où un certain embarras, qui n’est pas loin du malaise. Nous ne savons plus bien en quoi consiste une appartenance, comment s’opère le nouage d’un nous, lequel n’est pas, et loin s’en faut, le pluriel d’un je. Mesurons bien ce que le nombrilisme occidental nous a fait perdre de vue, et d’où vient notre désarroi devant la planétaire remontée des tribus et des ethnies. Les grands affairements communautaires qui remuent les Continents –sauf le nôtre, en Europe –  nous prennent à revers après deux siècles de séparatisme et nous poussons des cris d’orfraie devant le simple rappel de la plus ordinaire, la plus immémoriale des conditions : le coude-à-coude, le corps-à-corps disciplinaires.

Le voilà d’autant plus dérangé, notre contemporain que les projecteurs égarent à force d’éblouir, qu’il perd ici le secours de nos mythologies les mieux achalandées. Celles-ci exaltent de préférence les nobles identités chevaleresques ou mystiques. Moines en coule de bure et capuchon blanc, soldats sabre au clair, pantalon rouge et casoar… Giorgia Fiorio n’a pas mis en scène les grands corps pieux de l’État de droit et de l’Église du Christ, les Ordres au dépouillement sublime, les Académies brodées d’or, les Magistratures à pourpre et hermine, mais de basses castes industrieuses. Travailleurs sans prestige de la mer et du feu, de la mine, du ring et de l’arène, sobrement professionnels, sans même l’aura des gangs et des maffias, assujettis qu’ils sont à d’humbles fonctions productives, pour nous distraire, nous protéger ou nous alimenter. Ces corporations normalement constituées, ce ne sont pas les malheureux américains des années noires, ceux de Walker Evans et de Dorothea Lange. Ni les poulbots, les bougnats et les marchands de ballon des faubourgs parisiens à la Doisneau. Ils ne sont ni poétiques ni pittoresques. Entre la foule et la bande, entre la « vile multitude » et le sel de la terre : ces domaines secrets ne quittent pas l’ordinaire. D’où un regard neutre, un lyrisme froid, qui ne met pas son objet à distance mais ne cherche pas non plus à envoûter ou à séduire au nom d’une connivence raciale, ethnique ou messianique, – eine Volk ou Classe élue. La photo ne chante pas la colère, la guerre ni la haine. Elle n’est pas au service d’une cause à majuscule. Elle ne sublime ni ne dévalue. Ce n’est pas le regard fasciné et prosélyte de Leni Riefenstal exaltant le Triomphe de la Volonté en sublimant avec des contre-plongées de magnifiques dieux du stade, académies hyperboliques et démonstratives. Non plus que la propagande soviétique de haute époque, cadrant les athlétiques détachements d’avant-garde de la classe ouvrière, défilant sur la Place Rouge aux pieds du Politburo, happés par l’avenir radieux. Le regard n’est pas non plus méprisant, ni aristocratiquement dégoûté. Disons-le post-politique. Ni patriote ni militant. Voyeur ? Non. Simplement respectueux. Quoique peut-être admiratif.

Ce qui pourrait passer pour un éloge sinon de la force du moins des fraternités viriles, il fallait de nos jours une femme pour l’oser. Pour forcer la porte, indiscrètement, de ces mâles entre-soi. Les gender studies auraient pu prendre l’affaire en main, et les féministes porter plainte contre l’auteur(e). Ces photos de famille sans mères sœurs et épouses, eussent-elles été d’un compère, auraient viré au plaidoyer pro-domo, machiste et fascisant. Cet arma virumque cano n’est pas ici à propos, d’autant moins qu’on ne nous montre ni armes ni héros en armes, mais plutôt des gueules noires et des dos en sueur. Il fallait un certain culot, cela dit, pour lever le voile sur des métiers, des vocations et des enceintes – la Légion étrangère en est encore une, au sein même d’une armée de Terre qui met à l’ordre du jour la féminisation de ses cadres — où la féminité n’a pas sa place. Chacun sait qu’en matière de persévérance, endurance, obéissance et maîtrise de soi, les femmes peuvent nous tenir la dragée haute. La force physique n’est pas la cause de cette ségrégation millénaire, non plus que les aptitudes d’un sexe qu’on ne dit faible que par antiphrase, pour se flatter. C’est tout bonnement un trait de culture, hérité de temps très anciens, et Jeanne d’Arc est l’exception qui confirme la règle. L’être qui donne la vie n’est pas fait pour infliger la mort, pas plus aux animaux qu’aux humains. Pas de femmes dans les abattoirs, chez les bourreaux et les égorgeurs attitrés. Soigner, oui ; massacrer, non. Cette répartition des tâches au sein de la Cité, entre la médecine et le meurtre, l’infirmerie et la tuerie, remonte à la préhistoire La cueillette des baies et tubercules d’un côté, la chasse aux gros animaux de l’autre. Et dans nos armées ou nos gendarmeries, les femmes ne participent pas aux groupes d’assaut ou au RAID. Ce n’est pas une question de capacité, même si les hormones sont différentes ; l’affaire est d’abord et avant tout d’ordre symbolique. Il y a des veuves de guerre, des veuves de pompiers sacrifiés, de pêcheurs perdus en mer, de toreros éventrés. Dans ces branches d’activité à haut risques, le veuf n’est pas séant, et reste des plus improbables.

Giorgia Fiorio en prend acte, sobrement, et sans pathos, et de ce constat objectif pas vraiment à la mode et peut-être politiquement incorrect, il faut aussi la remercier. 

Il n’est pas si fréquent de capter autour de nous, avec un art aussi maîtrisé, l’ombre portée du néolithique sur notre modernité, quand tout nous pousse à oublier les fondamentaux indélébiles du vivre- et de l’œuvrer-ensemble.

Régis Debray, préface du livre FIGURÆ, par Giorgia Fiorio, Arles, Actes Sud, 2013

Sur les chemins du mystère

André Malraux, dans l’une de ses formules restées célèbres, prédisait une nouvelle ère marquée par le retour du sentiment religieux, évoquant ainsi le besoin chez l’individu de croire de nouveau en des valeurs spirituelles, après s’être longtemps livré au culte de la richesse matérielle, au désir incessant de possession. Beaucoup de photographies de Giorgia Fiorio réunies dans ce livre montrent des sujets manifestement emportés par une ivresse intérieure et s’y abandonnant totalement ; elles suggèrent des existences ascétiques, libérées de toute contingence terrestre. Une force d’ordre mystique ou divin s’est emparé de ces sujets et les a entraînés vers un au-delà, comme si leur pensée avait pour un instant – celui de la photographie – quitté leur corps. 

Que cherche Giorgia Fiorio en s’engageant dans ce projet qu’elle intitule « Le Don » ? Mot qui revêt plusieurs sens, à commencer par le principe de la transitivité : le don, c’est ce que l’être humain offre, mais c’est également une qualité qu’il reçoit en héritage. À qui? De qui? Le présent ouvrage ne répond pas à ces questions. Et il n’est pas non plus conçu comme une enquête sur les différentes manifestations de la foi. Il témoigne davantage d’une démarche – celle de l’auteur des photographies -, cerne les contours d’une aventure qui s’appuie sur une envie de comprendre, de décrire et de partager. La photographie serait-elle alors seulement envisagée comme prétexte, au service d’une intention qui la dépasse, de dimension philosophique, voire métaphysique? Assurément non, car l’acte photographique, même le plus objectif, n’est jamais neutre : il participe d’un choix quant au regard porté sur le réel – à travers notamment l’opération du cadrage -, et les images qui en résultent s’ouvrent ensuite à diverses interprétations. « Le Don » n’est pas seulement l’histoire du sujet qui s’offre à l’acte photographique, c’est aussi celle de Giorgia Fiorio. Elle reçoit et restitue. Et dans ce mouvement, dans la nature et les qualités mêmes de son regard, dans sa manière de matérialiser les images, il y a addition de sens, supplément d’émotion, d’âme, que le spectateur de la photographie est invité à s’approprier. Celui-ci revit à travers les images l’expérience de l’auteur ou les interprète tout autrement.

Rites et cérémonies, qu’ils soient d’inspiration religieuse ou païenne, solitaires ou fortement organisés d’un point de vue social et culturel, voulus ou subis, se jouent ici au carrefour du dépassement physique de soi et de la recherche spirituelle. Dans un premier temps, l’ambition de Giorgia Fiorio face à cette réalité complexe dont elle ne connaît pas nécessairement tous les codes – comme confrontée à une langue qui lui est étrangère -, est celle de décrypter gestes et attitudes de ses sujets. « Décrypter » est à prendre ici au plus près de son sens étymologique, à savoir mettre en lumière ce qui est « caché » et fait sens – faut-il rappeler, dans un même ordre d’idées, que la photographie est par définition écriture de la lumière -. Martin Heidegger écrivait que « la philosophie est un chemin qui ne mène nulle part ». De même ici, c’est le cheminement de l’auteur qui importe sans doute plus que l’issue. Mais le déroulé du livre n’est pas pour autant calqué sur la chronologie des « missions » successives à partir desquelles le projet a pris corps – au terme de reportage, la photographe préfère en effet celui de « mission » qui connote un engagement moral plus fort – ; l’ouvrage n’est pas non plus construit sur le mode de l’énumération, il reposerait davantage sur un principe syncrétique qui guide implicitement Giorgia Fiorio dans sa progression. Car il est bien question de progression : chaque mission est porteuse d’un nouvel éclairage, promet la confirmation de certaines hypothèses.

Un bref retour sur les travaux antérieurs de Giorgia Fiorio s’impose. Car « Le Don » est né d’une évolution, ou plus exactement il répond à une nécessité, celle de constamment nourrir et développer une recherche personnelle, tant sur le plan visuel qu’intellectuel. Auparavant, elle s’était pendant plusieurs années attachée à travailler sur des communautés principalement masculines, toreros, marins, légionnaires, mineurs entre autres, et dont les vies sont marquées par le recours à la force physique, l’expérience de leurs limites, et côtoyant souvent la mort dans les diverses épreuves qu’ils affrontent. À l’issue de ce travail sur ces communautés, s’est naturellement formé le désir d’étendre en quelque sorte le regard au-delà d’une réalité physique, de s’intéresser à d’autres forces, celles de l’esprit, aux manifestations de la vie intérieure. Ce qui constitue un enjeu paradoxal pour un photographe : montrer ce qui est abstrait, aussi invisible qu’indicible. Concentrant alors toute son attention et son énergie sur ce nouvel objectif, elle adopte la méthode du photographe documentaire. Elle quadrille un territoire – aussi bien géographique qu’anthropologique -, et gère son calendrier afin de ne manquer aucun des grands rites ou cérémonies qui, aux quatre coins du monde, pourraient enrichir son projet – à cela s’ajoute le fait qu’il lui faut braver toutes sortes d’obstacles, tant physiques qu’administratifs -. Chaque mission nouvelle a pour but d’enregistrer un événement qui ne figure pas encore à son tableau. Mais tout cela ne signifie pas pour autant que Giorgia Fiorio prétend à l’exhaustivité, ni que le motif de son ouvrage est guidé par l’exigence de l’inventaire, du classement. Il s’agit moins pour elle de témoigner d’une diversité que d’esquisser les contours d’une quête universelle. 

Au terme du périple qui s’achève avec la parution de ce livre, Giorgia Fiorio a fixé ces moments particuliers de l’existence au cours desquels l’être humain cherche le sens de la vie, une ou la vérité, de même qu’un salut ; mais elle a aussi émis l’hypothèse d’un lien entre tous ces moments. Un mystère commun qui se loge dans le corps des sujets qu’elle photographie. Que celui-ci, selon le type de communautés religieuses ou spirituelles à laquelle le sujet appartient, reste absolument immobile ou dessine au contraire toutes sortes de gestes, qu’il soit ignoré, comme transparent, ou bien objet de lacérations, voire de mutilations, qu’il s’anime de furieux tremblements ou encore exprime la sérénité. Car c’est bien de l’expression qu’il s’agit ici, et en toile de fond d’un langage, du langage. Le corps qui irradie dans les images de sa présence souvent exceptionnelle, au delà de l’humain, fait signe par lui-même ou bien en se combinant avec d’autres. Il dialogue avec des éléments de la nature – l’eau, le feu, la terre, la pierre -, ou l’acier des instruments qui caractérisent certains rites ; il s’inscrit dans des paysages, cherche parfois à s’y fondre. Seul ou associé à d’autres, il prend part à un mouvement, développe une séquence dont la photographie fixera un instant significatif. Celle-ci nous le fait imaginer silencieux, ou à l’inverse pris dans un vacarme assourdissant. “Le Don” de Giorgia Fiorio est le récit d’une confrontation avec tous ces corps qui sont autant de signes, de « fragments de discours » pour reprendre une formule de Roland Barthes. Elle ne cherche pas à les rendre plus lisibles, ni même à les expliquer. Elle nous laisse libres de la suivre sur les chemins de leur mystère, ou bien de les appréhender autrement, les regarder comme une forme pure, une soudaine dépense d’énergie, un éclat de lumière.

« Le Don » est une question que Giorgia Fiorio pose à l’homme – au sens générique du terme -, autant qu’à elle-même. Démarche à la fois objective et subjective, documentaire et artistique : car dans ce travail, il n’y a pas de contenu sans forme et inversement. Les préoccupations visuelles se mêlent étroitement à celles de la pensée. Cette photographie répond à un désir méthodique d’investigation et elle est instrumentalisée en ce sens ; mais certaines images se révèlent être après-coup des éclairages insoupçonnés, inattendus sur le sujet. D’autre part, la tension perceptible dans les scènes photographiées trouve souvent un prolongement dans la forme même de l’image, la composition, les plans, les perspectives, la lumière qui éclaire les personnages et les paysages, et c’est une heureuse correspondance. Plus généralement, quelque chose dans l’essence même de la photographie adhère à la nature de ce sujet : le mot qui sert à décrire la particularité de l’image photographique n’est-il pas celui de révélation ? Giorgia Fiorio s’emploie à saisir un phénomène de l’ordre du surgissement dans les rites et cérémonies qu’elle photographie. Ce pourraient être ces instants où « ça » parle, selon la formule du psychanalyste Jacques Lacan. Enfin, il y a du mystère dans le fait qu’une image nous « parle » plus qu’une autre ; ce mystère ne rejoindrait-il pas celui de ces scènes que Giorgia Fiorio nous donne à voir ?

Gabriel Bauret, Sur les chemins du mystère, dans Le don, par Giorgia Fiorio, Arles, Actes Sud, 2009

La femme du don

La femme que j’ai rencontrée porte en elle un don, elle est la femme du don. Ce don — dit-elle — elle l’a offert parce qu’elle l’a reçu, elle l’a donné alors même qu’elle le prenait, elle le rend et le retrouve entre ses mains dans la simultanéité immédiate qui distingue les choses antécédentes ou définitives, aurores en attente ou nuits éternelles, “pas encore” ou “jamais plus” où n’habite qu’un indistinct, un indéterminé, si incertain qu’il en devient certitude pleine, totale indocilité. Son don — dit-elle — est l’âme mystérieuse, nue, rassérénée, qui habite les corps, mais il est aussi corps qui s’offre comme figure de l’âme, et qui dans ce mouvement même, en ce qu’il est figure, disparaît derrière l’âme, est, enfin, âme. 

Elle dit que son don est vie et mort aussi, car sans la vie, il n’y a pas mort mais inertie, et sans la mort il n’y a pas vie, mais seulement mouvement sans intention, transformation pour ne rien devenir. Son don — dit-elle — est la foi en un Ailleurs qui est ici continuellement et toujours, la disponibilité d’un Absent qui appelle le monde depuis les origines du monde. Son don est force, tension, corde tirée par les deux bouts, horizon lancé, toujours plus au-delà et plus en deçà. Un corps ligoté par de grosses cordes mais qui se hisse sur ses bras à San Pedro Cutud pour la Semaine Sainte, écrasé en même temps qu’attiré, maltraité et intensément tendu, un arbre sec dans le désert soudanais, synonyme de soi et de son contraire, sans feuilles, rien que les éclairs ou les restes enfumés d’un incendie. Une main aux lignes nettes et un visage flou, le besoin exprimé avec une intensité extrême par les yeux d’une musulmane, de Somalie peut-être, et sa certitude dans l’exaucement, dans l’assouvissement impossible mais éternellement nécessaire. Son don — dit-elle — c’est le combat de deux corps qui reforment le premier couple divisé qui sait pourquoi, l’enchevêtrement un jour démêlé, de façon inattendue, puis recomposé par la lutte Kusti, et c’est le vousseau renversé, simultanément en équilibre et en suspens, précaire, de deux lutteurs Sumo. C’est les deux habitants du Mato Grosso qui façonnent ensemble une double voilure, ou un arc tendu par un bâton trop mince qui semble pourtant supporter les palmiers dans le fond . Tous les membres, qui ne se heurtent pas mais qui enfin se rencontrent comme cela a été et comme cela certainement sera, sont le don. 

Le don — dit-elle — est le cercle qui se ferme dans le rythme perpétuel avant tout avant et après tout après et pourtant toujours maintenant, c’est le mouvement rotatoire des derviches, l’essor que prirent les étoiles en leur temps. Et don sont les lignes courbes, filaments en qui sait quels cieux, ou porosité d’une échelle d’argile, comme dentée, sur le Machupicchu, ou les reflets d’un rocher d’or, ou une crinière de pierre allongée sur la mer de l’île de Pâques, rondeurs très douces et fermement ondoyantes qui n’ont pas divisé les espaces mais les ont laissés s’ajuster et se reconstituer. Le don est la double verticalité, les pieds tendus vers le ciel et les mains fermes pour empoigner la terre tandis qu’en position habituelle droite quelqu’un t’aide à rester immobile en suspension renversée, durant Kunbh Mela ou autour de Bénarès. Et puis — dit-elle — le don est la puissance primordiale nullement chaotique mais très composée, forme pleine, première et ultime résolution d’énergie, l’incroyable immobilité d’un drap de toile qui se déroule dans le vent, la solide stabilité de l’eau glacée qui coule sur les corps des Yamabushi ou de l’eau tiède d’une cataracte sur l’Isla Hispaniola, immobilité du mouvement égale et identique à celle d’un corps étendu mains et pieds liés dans une petite gorge quelque part sur les Andes, ou d’un homme sur l’Île de Pentecôte, dans sa chute freinée. 

La femme du don dit que la simultanéité des opposés est exactitude et qu’elle se condense exactement dans l’idée de grâce, c’est-à-dire gratuité, concession libre et libre acceptation, assouvissement global et sans motif, sans rétribution mais plein de compensation, sans mérite, sans droit, donation vraie, le don que Dante éclaire dans le Convivio quand il écrit que d’après « les sages […] la face du don doit ressembler à celle de celui qui le reçoit, c’est-à-dire qu’elle lui convienne, et qu’elle soit utile ». 

J’accompagne la femme du don dans son voyage, avec discrétion pour ne pas troubler sa perception et sa pensée, je l’écoute quand elle dit que le don est qualité, vertu, un bien accordé et reçu par la nature ou par la fortune ou par l’Un, je reste silencieux et je l’écoute. Torquato Tasso pensait que « parmi les dons les plus précieux et chers que Dieu ait faits à la nature humaine il y eut celui du parler » et je voudrais ajouter celui de l’écouter, réciproque par nécessité, je me tais et j’écoute la femme du don quand elle dit que le don est communion, bras et mains puissamment tendus, groupés, convergents vers le centre, de Juifs israéliens, affaiblis peut-être mais infatigables, mains d’un prêtre catholique, réunies les doigts croisés mais où le pouce, l’index et le médium s’ouvrent et forment le nombre trois, une trinité, le don ce sont des mains fortes qui portent des croix, des mains sereines qui effleurent des croix, des mains et des pieds qui reposent sur des croix, des mains qui servent à marcher. 

Le don — dit-elle — est un riche oxymore, beaucoup de lignes droites et beaucoup de lignes circulaires qui ne se croisent jamais, parce que se croiser signifie se couper, se blesser, se lacérer, la souffrance du détachement, elles s’effleurent plutôt et forment l’harmonie absolue et silencieuse d’un jardin zen. Elle dit que don est le corps noir peint de blanc, le corps noir vêtu de blanc, le bijou blanc sur un bras noir ou les mains jointes abaissées en prière dans les rites Candomblé, ou le sang coagulé, mais qui coule, on ne sait combien de temps encore, on ne voit pas où va s’achever ce flux ténu mais si lourd, et elle dit que le don premier est une nature pure et immaculée, avant toute créature, rien que des cimes, des sommets de montagnes et un ciel haut recouvert de nuages, ruisselant de nuages, et tu te demandes pourquoi parfois la terre est plus haute que le ciel, pourquoi la terre est plus lumineuse que le ciel, tu te demandes pourquoi ces convexités implacables continuent sans contradiction et sans priorité à porter le poids d’une histoire passée. Tu te demandes : pourquoi persévèrent-elles, en toute gratuité et ajustement, à émettre des corps que la terre submerge, des corps se posant du ciel ou attentifs à demeurer suspendus entre les deux, participant des deux ? 

Où qu’elle aille, la femme du don, le décor est le plus souvent le plein air, il n’y a presque pas de maisons ni de cabanes, rares sont les lieux déchus et abandonnés, parfois emmêlés aux racines, des racines comme des pierres fondatrices et comme des colonnes, et des pierres comme des racines vives, sinueuses et rampantes d’arbres morts. Quel que soit le lieu où parviendra la femme du don, et où elle s’arrêtera, tous passeront devant elle, s’écouleront le long de la rue marquée, ouverte par des étendards ou des pavillons aériens, puis feront halte, se rassembleront et repartiront ensuite se pressant, et chaque lieu, dans son voyage, fera à elle et à moi, silencieux, le don d’une image, chaque image accompagnée d’un symbole, signes phonétiques pour que le don soit simultanément regardé et entendu, et compris dans les différentes langues multiples qui le disent. La nature des lieux et de ceux qui les traversent deviendra nature des mots. 

Cesare Pavese a écrit que « sortir dans la rue, et trouver de l’herbe, des cailloux, émeut tout autant qu’une grande grâce, autant qu’un don de Dieu, autant qu’un rêve », mais il n’y a pas là l’herbe d’un jour quelconque, il n’y a pas les cailloux d’un demain ou d’hier, et le rêve n’est pas là ; à sa place l’éternité de la veille perpétuelle d’un toujours aujourd’hui. J’accompagne la femme du don, je regarde les cavités et les crevasses sombres, je n’éprouve aucune crainte, mais le fait de seconder. Je me tais parce que le don engendre de l’énergie muette, et ce qui reste est la stupeur, et l’attente. 

Daniele Del Giudice, La femme du don, dans Le don, par Giorgia Fiorio, traduit par Jean-Paul Manganaro, Arles, Actes Sud, 2009

Le don · 2000/2009

Quelle force entraîne les foules de pèlerins à travers les plus hautes montagnes et l’étendue infinie des déserts ? Qu’ont donc en commun ceux qui lèvent les mains au ciel et ceux qui frappent le front contre le sol ? Pourquoi certains sont-ils nus et d’autres couverts jusqu’aux yeux, d’autres rasés, polis comme des amandes, ou bien avec des cheveux longs mêlés à la barbe dans d’immenses turbans ? Qui habite les corps transpercés des flagellants, qui les membres couverts de cendre, qui se cache sous la peau, peinte ou tatouée de dessins enchevêtrés, qui derrière les masques, qui derrière le voile ? L’extase, la transe, la contemplation et la méditation mènent-elles à une perception indicible de la mort, ou bien à une réalité physique déchirante ? A travers l’expérience directe, sans intentions encyclopédiques, j’ai pendant neuf ans suivi la voie d’un projet photographique autour d’un cheminement personnel : “le Don”.

Aux origines des croyances, dans les premiers textes sacrés, comme dans la tradition orale païenne des ancêtres, apparaît toute une trame de correspondances : rituels, gestes répétés, échos d’un même frémissement face au mystère de l’existence. Au-dessus de l’espace-temps universel, se croise un labyrinthe de parcours à la recherche d’unisson entre l’identité extérieure de l’individu et son moi profond.

L’histoire des croyances, en parallèle avec celle du langage, trace le chemin du genre humain. Le langage et l’écriture racontent l’histoire sociale, relative à la connaissance, à l’échange et à la confrontation entre les êtres humains ; les croyances tracent, aux origines, l’histoire intérieure de chaque individu, chacune dans son propre tissu culturel et dans une perception toute personnelle de l’inconnu : le Mystère, le sacré, l’occulte, le passé ancestral, le futur intangible, les cycles de la Nature, les Eléments, l’idée du Temps, la dimension de l’Espace, et enfin, le sens de l’Existence dans sa complexité.

Des empreintes de différents parcours convergent jusqu’à se superposer dans le sillage du mot don. Dans ses multiples acceptions, don est l’un des mots les plus anciens du langage. Dans sa qualité transitive, il possède principalement deux sens : offrir/donner et recevoir, ou même prendre. Mais la question qui se pose depuis toujours est la suivante : offrir/recevoir “quoi”. La finitude de l’existence physique semble entrelacée autour de l’évidence du Mystère. La vie humaine reçue comme grâce et offerte comme tribut, sacrifice, consécration… Ces deux “visions premières” donnent naissance à de multiples interprétations, se déclinant d’une civilisation à l’autre au fil du temps : au fond de toutes les questions, inéluctable, la dimension corporelle de la condition humaine marque chacun des rituels. A codifier dans le geste, discipliner, réprimer, mortifier, purifier, honorer, orner, dénuder, posséder, délivrer, le corps – tout particulièrement la “chair”, en tant que matière, et en même temps la “figure”, comme représentation et paradigme de l’individu – est le “porteur” paradoxal de la dimension spirituelle. Le messager entre la vie et la mort. Peut-être, si l’âme est ombre, le corps est-il ombre de l’ombre.

Le Don est la vie et, indissoluble, la mort aussi. L’espoir promis d’une vie autre au-delà de la vie et encore d’autres vies au-delà de la sienne, le cercle se referme : la vie reçue, grâce qui génère encore de la vie. Aussitôt rendue.

Giorgia Fiorio, Le don · 2000/2009, dans Le don, par Giorgia Fiorio, traduit par Claude Templier, Arles, Actes Sud, 2009