{"id":413,"date":"2021-10-23T07:51:19","date_gmt":"2021-10-23T07:51:19","guid":{"rendered":"https:\/\/www.giorgiafiorio.com\/?p=413"},"modified":"2022-04-04T12:04:56","modified_gmt":"2022-04-04T12:04:56","slug":"figurae-nota-dellautore","status":"publish","type":"post","link":"https:\/\/www.giorgiafiorio.com\/figurae-nota-dellautore\/","title":{"rendered":"FIGUR\u00c6: NOTA DELL\u2019AUTORE"},"content":{"rendered":"\n

Un libro \u00e8 il calco di un\u2019esperienza interiore, l\u2019orma delle storie che hanno attraversato un orizzonte privato della conoscenza del mondo.<\/p>\n\n\n\n

New York 1990, sono al termine di un corso di studi di fotografia, ho vent\u2019un anni e il mondo dinanzi agli occhi \u00e8 immediato e irraggiungibile. <\/p>\n\n\n\n

Chiave o pretesto, in quel tempo credo che la photographie du r\u00e9el<\/em> sia il linguaggio per penetrare l\u2019universo impervio e scabroso di quegli uomini che nell\u2019immaginario collettivo di un passato recente appaiono come archetipi di un \u201cideale\u201d del maschio occidentale \u2013 pugili, minatori, legionari, torero, pompieri, marinai \u2013 realt\u00e0 umane impenetrabili al mio sguardo. Trascinata da una corsa febbrile a tutto questo non penso. In una cieca compulsione voglio vedere, voglio guardare ogni cosa che mi sembra impossibile da avvicinare. Ogni anno sposta il punto di vista sui codici incomprensibili, i gesti ripetuti come atti rituali. Attributi esteriori, i paramenti si svuotano e disvelano ci\u00f2 che non sapevo di cercare: non la figura maschile incarnata di una forza presunta, ma spogliato l\u2019individuo, la sua assurda fragilit\u00e0, struggente nello scontro fisico estremo. <\/p>\n\n\n\n

Nel sesto anno il progetto si definisce sull\u2019arco di un solo orizzonte e soltanto nel compimento finale inizio a capire che gli occhi cercano di trattenere quanto in ogni istante sfugge alla realt\u00e0 del visibile.<\/p>\n\n\n\n

Nell\u2019eco delle voci, al vivo di quei giorni, in queste pagine, ventitr\u00e9 anni dopo l\u2019avvio del progetto Des Hommes<\/em>, ho voluto ritrovare il respiro che l\u2019ha portato per dieci anni.<\/p>\n\n\n\n

DEL COMBATTIMENTO<\/h2>\n\n\n\n

New York 1990: \u00e8 un pomeriggio di marzo, salgo sul treno \u00abA\u00bb in direzione Brooklyn. Studentessa all\u2019International Center of Photography di Manhattan, la prima Hasselblad a tracolla, il treppiedi in spalla, mi faccio rubare ogni cosa prima ancora di arrivare. Al culmine della disperazione mi precipito al National Arts Club dal Chino<\/em>: mi mette tra le mani un\u2019altra macchina fotografica e taglia corto \u00ab se ci torni domani Te la lascio\u00bb. Brooklin, Front Street 77:  dal marciapiede leggo un\u2019insegna rossa, Gleason’s Gym<\/em>. Salgo per una scala di cemento con lo zoccolo alto di vernice azzurra come a scuola; si sente un battere di colpi sordi, l\u2019ansimare smorzato di voci maschili. Sull\u2019ultimo gradino esito un attimo, impugno la maniglia e spingo la porta, resiste, dimentico che negli Stati Uniti si aprono al contrario, tiro con forza ed entro. Per la prima volta varco la soglia di quello spazio infinitesimale che mi separa dalle cose. <\/p>\n\n\n\n

Occhi sfuggenti, naso rotto, Hira Becker \u00e8 il direttore. Mi lancio in una gran spiegazione sul lavoro che vorrei fare, fuma senza ascoltarmi, poi guardandomi all\u2019improvviso accorda il permesso raccomandando di \u00abnon importunare i ragazzi<\/em>\u00bb e pagare l\u2019entrata di un dollaro, \u00abcome tutti\u00bb. <\/p>\n\n\n\n

Dalle 17 alle 22, cinque giorni alla settimana sono a Front Street. Passa un mese, poi due, all\u2019improvviso desidero cambiare aria, vedere un\u2019altra realt\u00e0 e con occhi nuovi penetrare pi\u00f9 a fondo la dimensione che inizio a scoprire. Un vecchio allenatore mi spedisce a Harlem da \u201cun amico\u201d. Il Physical Johnson Boxing Club<\/em> \u00e8 un umido sottosuolo dove si batte una folla di portoricani. Una sera vengo condotta a un vero combattimento nel Queens, l\u00e0 \u2013 due metri e zero quattro, due revolver bene in vista \u2013 Big George irrompe  sul mio cammino. Volano altri tre mesi e negli occhi che tutti i giorni guardano in fondo al mio obbiettivo c\u2019\u00e8 la disperazione e una dignit\u00e0 che vuole essere raccontata. Nel Bronx, dopo l\u2019allenamento, al Fort Apache Youth Centre, <\/em>la notte si spara al tirassegni nel seminterrato. Big George mi porta con s\u00e9 per tutti iclub di New York e nelle sale dei match, affollate e fumose in fondo a qualche strada. Tutto cambia quando i pugili divengono professionisti: pagati, si passa da tre a sei round<\/em>, i guanti ridotti e pi\u00f9 nessuna protezione alla testa, ma il vero prezzo \u00e8 la posta altissima che pagano loro, la via senza ritorno per uscire dalla strada, le lesioni cerebrali. Trascorre un anno, \u00e8 tempo di tornare in Europa, il match di Tyson \u00e8 l\u2019ultimo che vedr\u00f2. <\/p>\n\n\n\n

Con un\u2019automobile bordeaux attraverso la notte per arrivare al peso<\/em> poco prima dell\u2019alba. Atlantic City, 6h30: Tyson \u00e8 una star e i media internazionali sono schierati in forze. Non ho l\u2019accredito, m\u2019infilo tra la folla e non so come raggiungo il bordo palco, l\u2019SWC a settanta centimetri dallo slip rosso di Iron<\/em> Mike sollevo il flash altissimo davanti a tutti e scatto tre immagini. Si alza un coro di proteste, vengo immediatamente messa alla porta \u2013 ma ormai non ha pi\u00f9 importanza.<\/p>\n\n\n\n

DELLA TERRA<\/h2>\n\n\n\n

Donetzk, Donbass, Ucraina: ventiquattro ore su ventiquattro, tutti i giorni della settimana, quattro turni di sei ore, ottanta dollari al mese, questo le Shakhty<\/em> del Donbass: cento sessanta miniere comparse tra la fine dell\u2019ottocento e l\u2019inizio del XX secolo. Questo regno della notte stende le sue citt\u00e0 sotterranee dentro un mosaico di gallerie e cunicoli, senza posa attraversati dal vento nel cieco respiro della terra. Il mio russo \u00e8 ancora approssimativo, chiedo due volte la profondit\u00e0 delle miniere; una mano scrive dei numeri, sulla carta quadretti leggoda\u2013700mt.a\u20131.400mt. <\/p>\n\n\n\n

Si scende al cambio del turno con una cremagliera, sorta di montacarichi che porta i carrelli di carbone e sino a quindici persone. Mille metri fanno circa dieci minuti, sebbene la discesa sembri eterna, la velocit\u00e0 \u00e8 \u201csostenuta\u201d e all\u2019arrivo \u00e8 consigliato tenersi<\/em>, le gambe flesse, pronti al contraccolpo. Sul fondo tutti scompaiono ingoiati nelle tenebre. Le zone pi\u00f9 vicine sono a un\u2019ora di marcia: la torcia \u00e8 collegata a una batteria di due chili alla cintola; puntato sui piedi, un cono di luce ritaglia un sottile triangolo luminoso che fruga la profondit\u00e0 del buio e acceca chiunque vi stia di fronte. Si cammina in silenzio in fila indiana, si scivola, si affonda all\u2019improvviso, si urtano ostacoli inaspettati, talvolta quando la pendenza cambia di colpo, si cade.Il sole pu\u00f2 brillare alto nel cielo, la notte essere piena di stelle e qui sotto il mondo migliaia di uomini senza posa. Nessuno esce dalla miniera sino al termine del suo turno. In ogni \u201ccantiere\u201d lavorano da tre a sei minatori; ci sono poi gallerie pi\u00f9 strette dette lava<\/em> dove occorre trascinarsi carponi per centinaia di metri nel fracasso dei cingoli e le rotaie che scorrono a qualche centimetro dal viso e dalle mani. A un certo punto tutto finisce e si esce neri di carbone e muti di fatica.<\/p>\n\n\n\n

I minatori hanno due spogliatoi, uno per \u201cl\u2019abito della miniera\u201d, l\u2019altro per quelli della vita. Al centro si \u00e8 nudi sotto ai getti d\u2019acqua bollente. Devo<\/em> entrare l\u00e0 dentro, cogliere quell\u2019istante di vita sospesa. Ascolto l\u2019acqua scrosciare tra risa di uomini. Un\u2019altra soglia. Adesso o mai pi\u00f9. Batto tre colpi sul vetro smerigliato, c\u2019\u00e8 un improvviso silenzio; gli occhi nascosti, fissi dietro al visore, spalanco la porta. <\/p>\n\n\n\n

A Donetsk abito a casa di Nikola\u00ef Grigorevitch, un capo miniera che tutti i giorni esce la notte e torna all\u2019alba, parte all\u2019alba, e rientra la notte. Gal\u00efa, la moglie passa le giornate a cucinare per tutti i minatori che vanno e vengono a tutte le ore. <\/p>\n\n\n\n

A casa per lavarsi c\u2019\u00e8 un rubinetto da dove cola un filo d\u2019acqua fredda, fuori, accanto alla pianta di lamponi, sovente allora si va a fare la doccia allo stabilimento con le altre donne: bianchissime, ridono sotto l\u2019acqua fumante, poi s\u2019asciugano con gran vigore e truccatesi con la massima cura escono a scherzare nel cortile con gli uomini. Il giorno della mia partenza con gran cerimonia Gal\u00efa mi consegna un foglio con la ricetta dei cetrioli in salamoia.<\/p>\n\n\n\n

DELLE ARMI<\/h2>\n\n\n\n

Sono passati diciassette anni dal giorno in cui ricevo la seguente comunicazione da Aubagne: oggetto riferimento fax: 06-01-1995. Facendo seguito allo scambio verbale, confermo accordo per la realizzazione delle campagne fotografiche secondo il planning proposto. Trasmetto di seguito la lista dei vaccini necessari all\u2019ingresso nei paesi dove si trovano i reggimenti della Legione Straniera: Tifo \/ D.T.P. \/ Febbre Gialla\/ Meningite \/ Epatite A \/ Epatite B. Per la Malaria, data la<\/em> vostra probabile esposizione a lungo termine, verrete informata sulla procedura preventiva. Auguro buona ricezione pregandovi di accogliere l’espressione della mia considerazione. Grado, nome, firma. L\u2019Ufficiale di Comunicazione della Legione Straniera<\/em>. <\/p>\n\n\n\n

Passa un mese, Parigi, Ministero della Difesa: il Colonello firma un documento \u00abVoil\u00e0 Madame, arruolata<\/em> per dieci mesi \u00bb poi facendo scivolare un cartoncino rettangolare nella busta che mi consegna aggiunge \u00ab Prima di andare a incontrare il Comandante della L\u00e9gion<\/em>, imparatelo a memoria\u00bb. Esco sul Boulevard, ancora non ci credo. Tiro fuori il cartoncino, lo rigiro tra le dita, \u00e8 il Code d\u2019Honneur du Legionarie<\/em>.<\/p>\n\n\n\n

Ma che cos\u2019\u00e8 la Legione Straniera? Cento dieci paesi rappresentati, tutte le etnie, ogni dimensione umana, sociale e culturale, l\u2019accento di tutte le lingue nel francese che imparano. Il k\u00e9pi bianco, l’anonimato, i canti, la cadenza di marcia di ottantotto passi al minuto; la rinuncia temporanea alla propria cittadinanza e allo statuo giuridico-civile del paese d\u2019origine. La prima ferm<\/em>a di cinque anni \u00e8 un taglio netto con chi si \u00e8 e tutta la vita fuori.<\/p>\n\n\n\n

La storia comincia a Aubagne, non lontano dalla montagna Sainte-Victoire. I volontari sbarcano alle cinque del mattino da un camion militare che arriva dalle sezioni di Parigi o Strasburgo; una porta si spalanca in una sala vasta e bianca con il soffitto basso e si richiude sul passato. Senza eccezione tutti gli effetti personali sono confiscati. Denudati, scalzi sulle piastrelle indossando quell\u2019indumento ultimo che, declinato dal tanga ai mutandoni in lana passando per lo short di microfibra sino al boxer inglese con le iniziali ricamate, rivela pi\u00f9 di quanto occulti, i candidati, le mani davanti al pube, girano attorno inquieti occhi lustri evitando gli sguardi. Poi ognuno riceve il suo numero d\u2019identificazione e un pacco d\u2019indumenti. Qualcuno, all\u2019ultima istanza di un processo inconsapevole, sublima una catarsi, certi, malediranno il soffio di ogni respiro. <\/p>\n\n\n\n

Nel centro esami psicoattitudinali sfoglio il fascicolo dei test statistici. Estraggo una trentina di pagine dove sono tratteggiati degli alberi di diversa specie. \u00abIl candidato riceve le tipologie degli esemplari; guardate qui \u00e8 tutto tradotto in diverse lingue\u00bb. Leggo le istruzioni: Scegliere un solo tipo di albero e ridisegnarlo.<\/em> Pini<\/em> e Palme<\/em> non sono ammessi<\/em>. Chiedo di vedere la sala esami: dita bianche e lunghe, le unghie curate tracciano esitanti una quercia improbabile. Un\u2019altra mano, reticolata di venuzze azzurre s\u2019immobilizza a mezz\u2019aria dinanzi a una radice che sorge solitaria al centro dalla pagina. Accanto, tra le dita di un arto vigoroso, una matita corre decisa, in pochi segni ben netti emerge un possente baobab. Tutti tacciono concentrati. Con un cenno degli occhi il sergente mi chiama fuori \u2013 \u00abQuegli alberi l\u00e0 dentro sono come questi uomini, il caso riunisce qui un strana foresta. In queste prime tre settimane, sono selezionati i profili<\/em> atti a integrarsi e quelli destinati al rinvio. Ci vuole gente ben solida\u00bb.<\/p>\n\n\n\n

Marzo 1995 Libreville, Gabon: Pedro mi tende la destra e schiva lo sguardo. E\u2019 il primo Legionario che conosco<\/em>. Qualche minuto dopo si parte verso la foresta; Pedro guida un fuoristrada militare e parla poco. La jeep sobbalza sul terreno ineguale, per un tempo che si dilata a una misura indefinita, oltre i vetri scorre un paesaggio di scuri grovigli. Non oso fare domande, s\u2019impara che le domande qui \u00e8 meglio non farle. Nei mesi che seguiranno, Pedro<\/em> lo ritrover\u00f2 tre volte, ognuna con un nome diverso. \u00abCinque ore e quaranta sei primi\u00bb annuncia spegnendo il motore. Due camion militari sostano a bordo pista. Una trentina di Legionari posano in gruppo vicino a un grande cartello bianco. Si stanno fotografando. <\/p>\n\n\n\n

Ci avviciniamo affondando nel fango. Leggo: a grandi lettere nere \u2013 QUI ATTRAVERSATE L’EQUATORE \u2013 sotto, in rosso carminio le distanze delle citt\u00e0 del mondo, Roma: 5000 km ; Parigi : 6000 km ; Londra : 6500 km Mosca: 7600 km ; New York: 10300 km ; Pechino: 12500 km ; Tokyo: 14400 km\u2026 <\/p>\n\n\n\n

Un metro, un passo. Sono nell\u2019altro emisfero: \u00e8 la prima fotografia di questa storia. <\/p>\n\n\n\n

Quattro giorni dopo alle 3h45 \u00e8 prevista un\u2019ultima s\u00e9ance sulla pista di addestramento in foresta equatoriale. Colano vent\u2019otto minuti di piroga nella foschia di una palude \u2013 \u00abSignori, non possiamo avanzare oltre. Si sbarca qui.\u00bb. E\u2019 l\u2019alba. Immersi sino alla vita nell\u2019acqua nera si procede tra le mangrovie; una nuvola d\u2019insetti accompagna i movimenti.<\/p>\n\n\n\n

Stremato, coperto di fango, il plotone alle nove \u00e8 di ritorno a Libreville. La riga in parte perfetta sui capelli fradici di sudore, un giovane tenente, che ha tutta l\u2019aria d\u2019esser appena uscito da Saint Cyr, il tono marziale, la voce di ragazzo ingiunge \u00abAvete venticinque primi per prepararvi, poi di volata all\u2019aeroporto\u00bb. Giro la chiave, lo chauffeur, il motore acceso, mi aspetta sul piazzale. Guardo un istante il n\u00b010 inciso sulla placchetta d\u2019acciaio; sono passati sei giorni. Un aereo a eliche rulla sulla pista destinazione Bangui, Centrafrica. <\/p>\n\n\n\n

Corsica, Francia, aprile 1995. Apro gli occhi, soffia un vento umido e forte, guardo nel buio. \u00abNon dormite? Sigaretta?\u00bb L\u2019orologio segna le tre. Fumiamo. Si aspetta. L\u2019intermittenza di un punto di luce affiora in mezzo al mare \u2013 \u00abEcco laggi\u00f9, li vedete?\u00bb Immerso nell\u2019oscurit\u00e0, cerco d\u2019indovinare l\u2019espressione del volto di quest\u2019uomo che non conosco. Il binocolo in mano, a gran passi sulla sabbia dura, fruga l\u2019orizzonte. \u00abStanno passando il capo proprio adesso, a occhio un miglio da dove sono stati paracadutati stanotte\u2026\u00bb \u2013 Ora vedo gli occhi scuri fissare un punto preciso, al largo della costa: \u00ab\u00ad\u00ad \u2013Tanto come toccano terra hanno ancora da farsi cinque ore di marcia \u2026\u00bb. Mancano quattordici ore al termine della Synth\u00e8se\u201348h<\/em>, un brevetto che pare un rito di passaggio.<\/p>\n\n\n\n

Al buio, su questa spianata battuta dal vento, l\u2019odore delle alghe gettate sulla sabbia, invade il mio respiro. Il mare disegna dei semicerchi di schiuma sulla riva e poi li cancella. <\/p>\n\n\n\n

Fine Giugno 1995, alle 11h34 il Battaglione francese sbarca sulla banchina di Ploc\u00e9 in Croazia. Seguono giorni di attesa negli hangar del dock. Sotto l\u2019altissima volta metallica la notte leva un\u2019onda che respira nel sonno di mille-duecento Legionari. <\/em>La missione questa volta \u00e8 la guerra. Non ci sono notizie e le ore una sull\u2019altra cadono sui giorni immobili. All\u2019improvviso l\u2019inesorabile spalanca una prospettiva a fondo perduto: il contingente smobilita e si lascia la Croazia con l\u2019orizzonte sul mare. Otto in fondo a un blindato, un casco di due kili e l\u2019antiproiettile di dodici, undici ore di trasferimento cristallizzano nell\u2019incoscienza la pista \u201clogistica\u201d di Trebisevo. La sera il campo \u00e8 levato nell\u2019erba alta di un prato verdissimo. L\u2019indomani durante la prima marcia di ricognizione, raccolgo dei fiori accanto a un campo minato. Trentadue ore dopo, lasciati i fiori in un bicchiere, riparto. Mentre salgo su un altro blindato qualcuno grida \u00abDovete tornare quando rullano i tamburi; tornare lass\u00f9!\u00bb.<\/p>\n\n\n\n

Due giorni dopo sotto la pioggia equatoriale, due camion militari risalgono la pista che taglia le colline di una foresta. Dalla panchina di legno guardo la terra rossa bagnata scivolare sotto le ruote. Un Legionario giovanissimo domanda \u00abCi siete stata in Bosnia? Non \u00e8 incredibile come la pista di Regina somigli alla \u201clogistica\u201d di Trebisevo? Ma s\u00ec, davvero tutto preciso, identico, colle palme al posto dei pini. Tanto l\u00e0 o altrove, noialtri legionari siamo ovunque lo stesso!\u00bb<\/p>\n\n\n\n

Settembre 1995 Bosnia Erzegovina, Monte Igman: sono di ritorno, sotto il cielo livido, il campo \u00e8 uno sterro scosceso di fango nero. Scorgo il bouquet, seccato e intatto sul tavolo del comandante. Come in giugno la seconda missione in Bosnia precede di qualche giorno la seconda in Guyana, immediatamente successiva. Non \u00e8 una coincidenza: prima di ripartire per Regina, sono stati raccolti tre pugni di terra in un contenitore di cuoio, il colonnello A.L., Comandante del contingente lo mette tra le mie mani con un\u2019impercettibile velatura della voce \u00abc\u2019\u00e8 una missione per Voi: consegnare la terra del Monte Igman ai camarades <\/em>del Terzo\u00bb. Durante quarant\u2019otto ore trasporto quel pezzo di suolo di guerra sino a Regina; al mio arrivo al campo un plotone sta aspettando gi\u00e0 schierato: eseguo la consegna<\/em>. Nell\u2019aria della foresta il Comandante, capitano C., depone il contenitore sotto al tricolore francese, poi sull\u2019attenti saluta quella terra in un altro emisfero. <\/p>\n\n\n\n

N’Djamena, 14h15 Dicembre 1995. Dalla finestra socchiusa il sole invade la stanza; una polvere luminosa ricopre ogni cosa. L\u2019ufficio \u00e8 deserto e da un tavolo ingombro d\u2019incartamenti, la sedia del colonnello C.B. mi guarda vuota. Attendo in piedi. Qualcuno apre la porta. Avanza lentamente. Lo sguardo fa il giro della stanza. Gli occhi sfuocati per una frazione di secondo incrociano i miei. Cucito sull\u2019uniforme, leggo il nome del comandante del battaglione. Abbozza un saluto formale, poi si gira e come se fosse altrove la bocca articola delle parole: \u00abAbbiamo perduto un uomo. Questa mattina il brigadiere-capo Brabakaran \u00e8 deceduto durante una missione. Una mina. Sposato. Due bambini\u00bb. Segue un silenzio. \u00abIl vostro programma subir\u00e0 qualche variazione. Sar\u00e0 uno strano Natale. Benvenuta tra noi\u00bb.<\/p>\n\n\n\n

L\u2019indomani dopo la veglia assisto alla funzione funebre senza macchine fotografiche; osservo davanti a me i crani rasati dei Legionari e i profili di quelli schierati nelle file accanto. Qualcuno serra le mascelle. <\/p>\n\n\n\n

E\u2019 il primo Natale che trascorro lontano; poi penso al brigadiere-capo Brabakaran che non ho conosciuto, penso al Natale della sua famiglia in Francia e a questa strana famiglia di uomini riunita qui. <\/p>\n\n\n\n

Seguono altri giorni nel forte quadrato di Ab\u00e9ch\u00e9 in mezzo al deserto, settanta due ore, le ultime di dieci mesi indicibili. <\/p>\n\n\n\n

Il Transaal<\/em> decolla, a volo radente effettua un secondo passaggio sopra la pista. Delle mani salutano, poi scompaiono dalla vista sulla terra che si allontana.<\/p>\n\n\n\n

DELL\u2019ARTE E DELLA MORTE<\/h2>\n\n\n\n

Autov\u00eda de Andaluc\u00eda, Autov\u00eda de Extremadura, Autopista del Sur, Red de Carretera del Estado, Ruta de la Plata, Ruta del Toro. <\/em>Strade, autostrade, sterrati, girano, salgono, scendono, corrono innanzi. Un nastro grigio, nero la notte, al centro s\u2019inseguono rapidi segmenti bianchi, poi una linea continua, ora fugge nel retrovisore. <\/p>\n\n\n\n

Rive di mare, il bordo di un fiume, colline, l\u2019ombra delle sierras<\/em>; terre di pietra e citt\u00e0 bianche che attraverso sempre vuote, calcinate di polvere nel soffio infuocato dell\u2019estate: Sevilla, Sanl\u00facar, Jerez, Higuera, Trebujena, El Bosque, Segovia, La Algaba, Alcal\u00e1, San Roque, Antequera, Aracena, Tarazona de la Mancha, Almer\u00eda, Linares, San Sebasti\u00e1n de los Reyes, Villaluenga del Rosario, And\u00fajar, Salamanca, Piedrabuena, Torralba de Calatrava, Guadalajara, Talavera, Algemes\u00ed, M\u00e1laga, Pozoblanco, Abarran, Zafra, Hell\u00edn, Segura<\/em> altre ancora. Guido ogni notte. 72.000 Km in cinque mesi. <\/p>\n\n\n\n

L’orizzonte lontano, il cielo compatto, teso e secco. Alte luci accecanti, zone d\u2019ombra impenetrabili, livelli di contrasto smisurati, non facile in bianco e nero senza spezzare la curva tonale del visibile; in questa Spagna di contraddizioni lo sguardo registra frammenti inconciliabili e indissociabili frantumi. <\/p>\n\n\n\n

Dal fondo della memoria emerge un ricordo: Carnevale 1969, mio fratello Alessandro, quattro anni cammina vestito da torero accanto all\u2019orlo della sottana della nonna lungo una passeggiatadella Riviera. <\/p>\n\n\n\n

Adesso qui, su questa gradinata sto per assistere per la prima volta a una corrida (ne vedr\u00f2 settantadue). Che cosa sta succedendo? L\u2019aria si muove dentro un\u2019agitazione calda e pervasiva, sensuale; qualcosa di colorato, rumoroso e assieme raccolto, anzi nascosto. Tutt\u2019attorno, donne colle bocche rosse di trucco, parlano, ridono, camminano vistose. L\u00e0 dove intendo entrare le donne restano fuori. <\/p>\n\n\n\n

Dinanzi a una corrida nessuna cosa \u00e8 quella che appare, nessuna evidente, nessuna scontata: n\u00e9 quanto s\u2019immagina, n\u00e9 ci\u00f2 che si vede di quanto si guarda. Inalienabili codici di un\u2019altra civilt\u00e0, questi segni non li posseggo. Guardo cosa gli occhi vedono: al centro dell’arena, perpendicolare alla sua ombra il torero leva dal suolo un disegno trasparente; i gesti, precisi o scomposti, scompaiono nel momento in cui si compiono. Gli occhi vedono un mosaico di passi cancellarsi l\u2019un l\u2019altro in una danza sfrenata. Sole certezze sull\u2019istante che avviene, la solitudine e il terrore di ogni torero dinanzi alla carica di un toro di settecento chili, tecnicamente dinanzi alla propria morte. L\u2019esistenza tutta gira sul cardine di quell\u2019attimo. Ortogonale all\u2019orrore di quella scheggia di tempo, il torero si appropria l’inconsistenza dell\u2019aria per imprimervi una forma perfetta che il vento soffia via. Senza neppure cercare di spiegarmi questa misteriosa trascendenza e di l\u00e0 da ogni retorica, voglio vedere quanto \u00e8 invisibile di ci\u00f2 che si vede, che cosa c\u2019\u00e8 dietro, prima, dopo e tutt\u2019attorno. Vedere che cosa a vent\u2019anni intaglia nei tratti del volto di un torero una maschera divorante d\u2019irreversibile vecchiezza.<\/p>\n\n\n\n

DEL FUOCO<\/h2>\n\n\n\n

Bronx N.Y.C. Aprile 1997 \u2013 05h14. Tace la voce del fuoco. Il tumulto si dissipa tra le grida sparse, l\u2019acqua che scroscia nel rumore delle scale meccaniche ancora in funzione, i ferri<\/em> che frugano i soffitti sfondati e i vetri che continuano a precipitare infrangendosi sull\u2019asfalto. Figure concitate muovono nel buio, i gesti febbrili, i volti lividi sotto al casco di cuoio. Nella notte che recede, sventrato, un palazzo di sei piani disegna nel cielo un\u2019ossidiana irta di guglie. <\/p>\n\n\n\n

Qualcuno avanza a gran passi, la testa gettata all\u2019indietro; irriconoscibile, quest\u2019uomo che ora parla forte e gesticola dinanzi a me, lo conosco. Pare impossibile sia lo stesso che per giorni ho visto andare e venire con le bretelle attorcigliate attorno ai fianchi, il mug<\/em> con il caffelatte stretto in pugno. Sebbene le chiamate si susseguano incessanti \u2013 sino a ventidue su ventiquattro ore \u2013, in eterna attesa, la vita del firehouse<\/em> \u00e8 un\u2019ansa cava nello spazio-tempo. Un codice alfanumerico telegrafico identifica la natura di ogni chiamata: esplosione. Suicidio. Malore. Rissa. Sparatoria. Incidente stradale<\/em>\u2026 Talvolta compare una seconda specifica \u2013 casualties<\/em> \u2013 vittime. Fuoco<\/em>, pi\u00f9 rara, \u00e8 accompagnata dal codice che ne definisce l\u2019entit\u00e0. Dopo le catastrofi, scesa la tensione dello sforzo, l\u2019adrenalina della paura, capita che alcuni si sfrenino in aneddoti e risa fragorose nel bel mezzo della strada. Scandalo. Piovono lettere di protesta sulla citt\u00e0: \u00abcome possono questi mostri scherzare sulle nostre disgrazie!\u00bb. <\/p>\n\n\n\n

Il fuoco dei pompieri non rifulge nello sfarzo delle fiamme, un\u2019oscurit\u00e0 senza fondo \u00e8 il tetro fondale di quel teatro e le esercitazioni di orientamento e coordinazione motoria con la maschera cieca, costituiscono il fondamento della formazione all\u2019Accademia del Fuoco<\/em>. <\/p>\n\n\n\n

Di generazione in generazione, si \u00e8 pompieri per tradizione o per vocazione: lontano dai fasti, in una misteriosa grandezza d\u2019inconoscibili miserie, alla fiamma dei giorni.<\/p>\n\n\n\n

FORESTE \/ DEL FUOCO II<\/h2>\n\n\n\n

Una popolazione carceraria di centocinquantamila uomini sull\u2019estensione del territorio, in California esiste un programma di riabilitazione destinato ai prigionieri a basso rischio<\/em>. Trentatr\u00e9 Conservation Camps<\/em> coinvolgono sino a duecento “pompieri-forzati” per campo. Le “prigioni senza mura\u201d costituiscono parte integrante del dispositivo operativo di sicurezza e protezione ambientale, per incendi forestali, terremoti, alluvioni, inondazioni e altre calamit\u00e0 che assediano questa parte degli Stati Uniti. <\/p>\n\n\n\n

Un dollaro al giorno tutti i giorni, un dollaro l\u2019ora durante le operazioni. Un albino nero, gli occhi socchiusi, parla sottovoce seduto sulla branda. Gli manca l\u2019anulare della mano sinistra. \u00abAll\u2019inizio quando sbarchi a Susanville sei un poveraccio. Da un giorno all\u2019altro in mezzo a delinquenti veri, ogni ora che passa sei peggio di prima. Ti dici che non uscirai mai pi\u00f9\u00bb. Nel 1997 il carcere maschile di Susanville conta pi\u00f9 di duemila prigionieri. Qui, due volte l\u2019anno si compiono le selezioni per il programma di riabilitazione. M.R., un veterano della massima sicurezza, mi accompagna. Sul volo da San Francisco non smette d\u2019intessere i racconti delle sue gesta carcerarie. Atterriamo a Susanville alle 07h45 nell\u2019aria tagliente. Il direttore del penitenziario mi squadra e porgendomi un documento, ingiunge di leggerlo con la massima attenzione. Dovr\u00f2 firmarlo. Leggo la lista interminabile dei Diritti del Prigioniero<\/em>, la minima infrazione \u00e8 penale. In fondo alla terza pagina, a lettere capitali c\u2019\u00e8 una clausola in neretto: \u00abqualora il visitatore incorresse in un sequestro all\u2019interno della struttura<\/em> non sono previste procedure di soccorso\u00bb. Appoggio il documento sul vetro che copre la scrivania, lo firmo e sollevo lo sguardo. Il direttore mi sta fissando. Anticipa la mia domanda \u2013 \u00abCome misura preventiva si tenga ai bordi del quadrilatero<\/em> centrale, sempre sotto tiro dalle quattro torrette. Sconsiglio di sconfinare verso altre zone. La sua visita \u00e8 annunciata e domani saranno tutti l\u00e0 fuori\u2026 M.R. avr\u00e0 cura di indicarle i gruppi che hanno firmato le liberatorie e i settori da cui tenersi alla larga\u2026 Eviti in tutti i modi il contatto ottico<\/em> diretto con i prigionieri.\u00bb<\/p>\n\n\n\n

Nel brivido di un ricordo rivedo chiudersi con un colpo secco la griglia d\u2019acciaio dell\u2019entrata del Lager<\/em> Obukhovo<\/em> Sezione Criminale Maschile, San Pietroburgo 1994. <\/p>\n\n\n\n

L\u2019indomani alle 13h30 seguendo una competizionemi accorgo che siamo vicinissimi alla zona \u201cproibita\u201d. Ondeggia una strana agitazione. Procedo. E\u2019 un attimo. Del fuoco precipita da due finestre, per una frazione di secondo vedo qualcosa che non avrei mai voluto vedere. Un walkie-talkie<\/em> in mano, M.R. mi tira di colpo per un braccio. Serrando le dita in una morsa sibila \u00abVieni ora \u2013 allunga il passo, non fermarti e non girarti per nessuna ragione!\u00bb. <\/p>\n\n\n\n

Due giorni dopo dentro a un van blindato si procede attraversando alte colonne di fumo sopra uno sterro riarso. Tra le mani calzate di cuoio carminio i forzati stringono gli attrezzi: seghe rotanti, accette, picconi\u2026 Sul sedile anteriore con il tenente, M.R. \u00e8 di spalle oltre al vetro. Un rosso basso e robusto con la canna del piccone batte dei colpetti misurati sul pavimento metallico. Sorride e mi guarda. \u00abChe c\u2019\u00e8? D\u00ec che ci hai paura. Un portoricano, la barba che copre parzialmente il volto sfregiato, interviene \u2013 \u00abQuando si arriva nei posti con \u2018sti arnesi non \u00e8 che faccia bella impressione. La gente guarda da dietro i vetri\u00bb. Il ciuffo sugli occhi, un biondo interrompe \u2013 \u00ab\u00c8 che l\u00e0 fuori nessuno ti considera. Qui \u00e8 tutto il contrario. Ogni cosa \u00e8 importante qui. Che se uno di noi sbaglia, qui siamo tutti fregati. Qui per la prima volta capisci che anche tu sei importante per qualcuno\u00bb. Ora tutti vogliono parlare \u2013 \u00abParlo io\u00bb taglia corto un gigante con le sopracciglia spioventi sugli occhi miopi \u00abquando noi si finisce un\u2019operazione, ci crede ci ringraziano? Si passa per i paesi e mettono fuori dei cartelli: GRAZIE RAGAZZI. Proprio cos\u00ec. Scritto grande. Qualcuno viene fino fuori a salutarci. Di lontano per\u00f2, che mica li lasciano avvicinare. \u201cGrazie\u201d a me nessuno me l\u2019aveva mai detto\u00bb Poi tutti tacciono. <\/p>\n\n\n\n

Gli occhi fissano qualcosa nel fumo oltre le sbarre rosse del finestrino, il furgone rallenta, siamo quasi arrivati. <\/p>\n\n\n\n

Da un angolo si leva ancora una voce che articola con voluta cura ogni parola. \u00abVede, mi permetta di dirle, qui non c\u2019\u00e8 nessuno che si sogni di fuggire. Questa esperienza, capisce, \u00e8 un\u2019occasione unica. E\u2019 che succede qualcosa. Sai di essere migliore. Non degli altri, migliore di te.\u00bb.<\/p>\n\n\n\n

DEL MARE<\/h2>\n\n\n\n

Mallaig, Scozia, 6 marzo 1999. Sotto i rovesci di grandine che tempestano la banchina e i ponti delle barche, il vento disperde il grido dei gabbiani in un volo incerto. Nell\u2019aria l\u2019odore di corda e catrame. Normalmente il porto \u00e8 un continuo via vai di urla, un fracasso di ferraglia che sbatte, blocchi di ghiaccio, carrucole e bidoni che imbarcano e sbarcano, seghe e motori che raspano nel rumore della risacca, incessante contro il molo. Stamattina il porto \u00e8 deserto. Dirigo i passi verso il centro del villaggio. La missione<\/em> \u00e8 un edificio celeste di legno dipinto, con un tetto spiovente, rosso lampone. Dietro ai vetri appannati, uno stanzone luminoso che sa di cucina ogni domenica accoglie una folla festosa. <\/p>\n\n\n\n

I pescatori, il berretto di traverso, trascinano per la sala gli stivaloni bagnati lasciando sul linoleum grandi chiazze d\u2019acqua. Giovanotti dagli occhi luccicanti lanciano sguardi sfuggenti da dietro le ciglia chiare. Le guance vermiglie, ragazze mingherline si sbandano tra le donne un po\u2019 grosse, ingombre di bimbi piagnosi e infagottati. E\u2019 tutto un atteggiare di spalle, un guardarsi con l\u2019aria di niente, un continuo bisbiglio tra le risa smorzate. Tutto un mondo che qui comincia e finisce. In settimana i pescherecci escono prima dell\u2019alba intorno alle quattro. Tra il rollio della chiglia e il tuono del motore si dorme un poco durante il primo tragitto. Poi le giornate corrono sulla cadenza delle onde, la lontananza dell\u2019orizzonte, il th\u00e8 nero che si beve fumante. Ogni levata <\/em>rovescia sul ponte un mobile tappeto screziato in un vasto rimestare di pinne opaline, chele, branchie e creste puntute. Tra le code dentellate, grossi scampi scivolano impacciandosi nei filamenti di scomposte meduse mentre i granchi bianchi s\u2019intraversano sul dorso delle razze, punteggiate di nero come leopardi. Rosate capesante colano una bava vischiosa tra le aguglie azzurre in un agitarsi di tombarelli che spuntano sparsi tra le aringhe e le sogliole e ancora altri pesci, pallidi, vetrosi e mai visti. Un molle risucchio bagnato che inchioda lo sguardo come un quadro di Pollock.  <\/p>\n\n\n\n

Nei pescherecci Ring-Net <\/em>la cabina sta sul fondo della chiglia, a poppa, accanto alla sala macchine. Quando le onde prendono la barca in un maglio convulso, chi non ce la fa si corica in questo ventre impestato di nafta, dove il beccheggio \u00e8 pi\u00f9 fondo e il rumore infernale. <\/p>\n\n\n\n

Le cuccette sono esigue cavit\u00e0, longitudinali alle pareti. La testa sul cuscino freddo, si chiudono gli occhi allungando le gambe sotto un ammasso di coperte umide. Oltre la cortina sintetica, la luce rimane accesa. Gli occhi spalancati si resta cos\u00ec. Poi finalmente, ci si addormenta come precipitati dentro una tomba. Le ore si sfaldano. <\/p>\n\n\n\n

D\u2019un tratto il motore cambia tonalit\u00e0 lacerando l\u2019incoscienza. E\u2019 il segnale, un\u2019altra levata. <\/p>\n\n\n\n

Oggi, per la prima volta dopo quarantadue giorni, il mare \u00e8 un cerchio luminoso. Sull\u2019alba immobile, si levano lontane scogliere verticali. Al largo conto sette pescherecci che trainano sulla linea dell\u2019orizzonte. Donald, leva l\u2019indice e nomina a mezza voce le isole Ebridi \u00abBarra<\/em>, Eriksay<\/em>, laggi\u00f9 Coll<\/em> e Tiree<\/em>, qui a destra Skye<\/em> e davanti a noi Uist<\/em> Sud<\/em>, che l\u2019altro non si vede.\u00bb <\/p>\n\n\n\n

Rallento, infilo la rotonda a mano inversa. Talvolta ho l\u2019impressione che la somma delle partenze non corrisponda al conto dei ritorni, i frantumi degli incontri dispersi, le strade che non ritrovano i passi. Imbocco lo svincolo in direzione Aberdeen. Accelero. <\/p>\n\n\n\n

Lerwick Shetlands, 30 marzo 1999. Qui quella nozione di comunit\u00e0 trovata a Mallaig \u00e8 scomparsa. La gente ringhiosa se ne sta muta per i fatti propri. E\u2019 tutta una storia complicata e poco edificante di gelosie e rancori per la compravendita dei permessi di pesca e pesci che non potrebbero essere pescati, rigettati a mare, morti. Qualcuno mi aveva parlato dei clonedykers<\/em>, fosche navi-fabbrica, generalmente russe. 40\/50 uomini imbarcati, sei mesi di fila senza toccare terra. Si dice talvolta compaiano all\u2019ancora sullo sfondo della baia di Lerwick. Lawrence \u00e8 l\u2019agente che \u201ctratta\u201dcon i russi. In canottiera nel cortile del cantiere, la voce esala il fumo dell\u2019aria fredda. Lawrence parla una lingua indecifrabile. Tra diverse gesticolazioni capisco \u00ab\u2026Dopodomani \u202660 metri. \u2026Moormansk.\u00bb<\/em> Il nome russo del peschereccio lo scrive in un angolo della pagina di un quotidiano, lo strappa e me lo tende: Leonid Novospaski\u00ef<\/em> leggo. Sempre gesticolando ricomincia a urlare \u00abStanotte \u2026Parlo, Comandante \u2026Io parlo\u00bb indica la sua bocca che si muove \u00ab\u2026Capito?\u00bb Poi piazzandomi davanti agli occhi due dita aperte a V. \u00abDue bottiglie \u2013 2 \u2013 Scotch\u00bb. Annuisco. <\/p>\n\n\n\n

9h45, 24.8 Fahrenheit \/ meno 4\u00b0 Celsius. Uno Zodiac salta sulle onde tra gli spruzzi ghiacciati. Ci avviciniamo raggiunti da un odore che rinuncio a descrivere. A poppa di un peschereccio fuori scala una rampa arrugginita si spalanca come una gigantesca bocca. Lawrence si sbraccia agitando le bottiglie. Qualcuno, la testa dentro un colbacco nero, lancia una cima di canapa. Ci arrampichiamo su per una scala di corda. Si scivola. Poi finalmente si emerge sul ponte. Qui le parole mancano. Manca il respiro per dire la scena dinanzi ai miei occhi. Pi\u00f9 tardi di fronte al bortsch color sangue guardo i vasetti di terracotta accanto alle finestre sigillate. A spasso per tutti i mari, dentro quei vasi c\u2019\u00e8 la terra di Russia.<\/p>\n\n\n\n

Isola di San Pietro, Carloforte, Italia, Aprile 1999. <\/p>\n\n\n\n

Uno scoglio verde a Sud-Ovest della Sardegna, San Pietro \u00e8 una colonia<\/em>. Sul traghetto che congiunge Portoscuso (Sardegna) a Carloforte, capoluogo in isola di San Pietro, Giuliano, primogenito della famiglia Greco, signori della tonnara \u00abLa Punta\u00bb, mi spiega che cos\u2019\u00e8 la mattanza <\/em>dei tonni. <\/p>\n\n\n\n

Parla nel vento che sparge sulle onde il profumo inconfondibile, secco e amaro, del mirto. \u00abC\u2019\u00e8 il Ra\u00efs<\/em>, capo della ciurma<\/em> di mare: i Tonnarotti<\/em>, i “matador\u201d dei tonni, che la tonnara qualcuno la paragona alla corrida. Oltre alla Musciara<\/em>, la barca del Ra\u00efs, la flotta della mattanza \u00e8 composta di diverse imbarcazioni: i Palischermotti<\/em>, le Bastarde<\/em>, il Barbariccio<\/em> e un Vascello<\/em>. <\/p>\n\n\n\n

Ci sono tonnare d\u2019andata<\/em> e tonnare di ritorno<\/em>. La nostra \u00e8 d\u2019andata, ossia \u00e8 attiva al passo di uscita<\/em> quando al mese di maggio, i tonni gravidi, seguendo le correnti migratorie, nuotano in direzione Est; la tonnara \u00e8 un sistema di stanze <\/em>sottomarine, sulla rotta del loro passaggio; immaginati delle murate verticali di rete, tese dal fondo alla superficie del mare. Dapprima i tonni incontrano la coda,<\/em> una murata tirata perpendicolare alla costa che li induce a virare verso la bocca <\/em>della tonnara. Entrati, un sistema di chiuse dette porte,<\/em> si aprono e richiudono \u201ca ventaglio\u201d mentre i pesci passano da una stanza<\/em> alla successiva, finch\u00e9 raggiungono l\u2019ultima, detta la morte<\/em>. Questa, a differenza delle altre stanze, ha un fondo e come tutto il sistema si leva a braccia\u00bb. <\/p>\n\n\n\n

Arrivati allo stabilimento attraversiamo un capannone tra montagne di reti ammucchiate. Cerco di non inciampare nei cavi e le cime di canapa allungate in tutte le direzioni. Nel cortile, al centro di un edificio color sabbia, si attorcono filacce di juta, trefoli di ramia e matasse di filo. Una fila di braccianti in piedi sta cucendo nel controluce della sera. <\/p>\n\n\n\n

Il lavoro in mare comincia e finisce sempre nel buio e le settimane dei Tonnarotti non conoscono sabato n\u00e9 domenica. Gli uomini di Portoscuso e quelli di Carloforte sono tutti anime<\/em> di uno stesso padrone. Anche se lavorano assieme sono ciurme ben distinte e in tutto differenti: \u201crazza\u201d, tradizioni, credenze, linguaggio, tecniche e ritmo di lavoro e metodo di applicarlo. Sardi, \u00e8 questione di fierezza atavica, il possesso del mare della loro<\/em> terra. Carlofortini, \u00e8 l’orgoglio di chi sente un dovere esercitare la propria supremazia sulla terra conquistata. Il mare, con i suoi pesci condivisi li unisce e irrevocabilmente separa. <\/p>\n\n\n\n

Ci sarebbe molto da dire sui tonni. In bianco-nero, il sangue chiama qualche parola. Un sangue scuro che tinge le mani, macchia le unghie e passa sotto la pelle. Colloso quel sangue appiccica capelli e vestiti. Quel sangue oleoso quando si levano le reti fa scivolare sui bordi fradici delle barche e, dalle acque morte<\/em> del Vascello<\/em>, emana un odore che prende la gola. Al sole, quando secca, quel sangue compone sulle lastre di pietra della banchina ritorti serpenti ramati che si confondono con la ruggine.<\/p>\n\n\n\n

Sicilia, Portopalo di Capo Passero, Italia Giugno 1999. <\/p>\n\n\n\n

I remi tagliano l\u2019onda, sfilano lungo i fianchi neri della musciara<\/em> immergendosi con una leggera torsione appena sotto al filo della superficie. L’acqua si apre sotto la chiglia che la solca. A picco del cielo senza vento ondeggia intatto lo smalto del mare. L\u2019orizzonte nella calura si stempera in una linea indecisa.<\/p>\n\n\n\n

In piedi a poppa, calzato di mocassini di cuoio intrecciato, dritto come un pioppo Don Francesco Rosario Asaro di Castellamare del Golfo, \u00e8 il Ra\u00efs. Sollevata la paglietta, ravvia i capelli immacolati con le dita. Don Rosario incarna l\u2019autorit\u00e0 di chi comanda; il secondo,<\/em> orbo del destro, glauco come un opale, parla per lui colando uno sguardo traverso sul bronzo della voce. Qualche anno prima, risaliti dalla Sicilia, loro avevano armato<\/em> la tonnaradi Carloforte. Don Pietro Bruno di Belmonte, con un\u2019interminabile lista di titoli e onorificenze \u00e8 qui innanzitutto il Signore del Mare<\/em>. La rimessa in funzione della tonnara di Capo Passero \u00e8 per lui una sfida disperatamente romantica alla fine del suo secolo; un grand jeu<\/em> come lo definisce, che da\u2019 lavoro a una sessantina di anime e di che scommettere la gloria e l\u2019onore<\/em> del \u201csuo\u201d paese. Sulla punta di Capo Passero, tallone Sud-Orientale della Trinacria,<\/em> lo Ionio e il Mediterraneo s\u2019incrociano tra violente correnti, in superfice non una ruga. <\/p>\n\n\n\n

Assiomi del paradosso, come l\u2019anima della Sicilia, la sua sanguinosa dolcezza, questo vento minerale esala dalla terra e scivolando incandescente sulle onde, tutto solleva e tutto cancella.<\/p>\n\n\n\n

Ora, seduto alla tavola dove tutti si radunano per mangiare, qualcuno gesticola brandendo un coltello \u2013 \u00abO\u2019 ma che ciai da guardare? Eh\u2013mangia no. \u2026\u2018L pane, \u2026le cipolle. Prendi qua\u00bb. Il coltello incide la cipolla rossa e una mano coperta di una fitta peluria mi porge, stretto tra due dita, uno spicchio luccicante. Gli altri, gli occhi nel piatto masticano in silenzio. Tirato sul fieno, la bocca spalancata, qualcuno fila il respiro del sonno. Nell\u2019archeggio delle cicale, fuori della frescura di queste pietre la terra esala un calore carnale. Le canne si rizzano sparse trasalendo nell\u2019ora immobile. Oltre, pi\u00f9 nulla. Il mare tutto attorno \u00e8 uno schermo viola sotto il cielo di fuoco.  <\/p>\n\n\n\n

I tonni non vennero mai. Mai tanto che io fui l\u00e0. Domani riparto e anche se posso indovinarlo, non conoscer\u00f2 l\u2019epilogo di questa avventura. Senza quanto accaduto, malgrado nulla accadesse, forse non avrei mai compreso niente di quanto \u00e8 stato o non \u00e8 mai stato. A Pirandello la risposta.<\/p>\n\n\n\n

DEL MARE II<\/h2>\n\n\n\n

N.R.P. Sagres<\/em>, Lisbona Portogallo, maggio 1999. <\/p>\n\n\n\n

Oggi comincia il viaggio \u2013 Lisbona, La Coru\u00f1a, Anversa, Rouen, Azzorre \u2013 della nave scuola Sagres<\/em> tre alberi della Marina Portoghese. Effettivo di bordo: centottanta-cinque imbarcati. Tre mesi di navigazione. Questa mattina, non c\u2019\u00e8 quasi nessuno. I pochi in servizio strappano le ultime ore a terra. Sul ponte, incontro il quartiermastro dell\u2019albero di maestra<\/em>. Sbarcando dichiara dalla passerella \u00abVado a fare un figlio a mia moglie e torno!\u00bb <\/p>\n\n\n\n

Scandito dai fischi<\/em> ascolto questo codice sonoro che da oltre un secolo, regola le manovre di ventitr\u00e9 vele auriche e ogni azione della vita di bordo per due centinaia di uomini. <\/p>\n\n\n\n

N.R.P. Sagres, 22 luglio 1999; 45\u00b028′ 0 N, 0 8\u00b044’E<\/p>\n\n\n\n

Nel ripetersi di giorni tutti uguali, il cielo alza e riabbassa il suo cerchio d\u2019orizzonte. Da giorni non s\u2019incontra pi\u00f9 n\u00e9 un insetto n\u00e9 un volatile. In questo ventiduesimo giorno di luglio si naviga su lunghe onde metalliche sotto una volta di nuvole basse squarciata dai raggi del sole. Di colpo un\u2019agitazione pervade la nave. L\u2019equipaggio si pressa contro il parapetto a babordo; si passano i binocoli: tutta invelata una nave interrompe finalmente l\u2019arco del mare. Paralleli e lontani sulla medesima rotta i due velieri procedono in direzioni opposte. Qualcuno grida: Amerigu Vesputchi..<\/em>. Infine, le murate fianco a fianco a due miglia di distanza, Amerigo Vespucci chiama Sagres con il morse luminoso, Sagres inalbera un nastro di bandiere e risponde trasmettendo il proprio indicativo internazionale nel codice dei segnali marittimi. Nel laconico balletto che declina il ventaglio dei saluti previsti in tali occasioni, si verifica un \u201cfuori programma\u201d. Il comandante mi fa chiamare in sala comando e mi chiede di trasmettere in Italiano<\/em> il seguente messaggio \u00abIl comandante di Sagres saluta il comandante dell\u2019Amerigo Vespucci e il suo equipaggio\u00bb. Schiarisco la gola e non senza emozione, sfodero la mia migliore dizione. Trascorrono i secondi e sotto quel cielo lontano, ci raggiunge la risposta di una bella voce italiana. Non traduco per gli ufficiali immobili tutt\u2019attorno \u00abDal Comandante dell’Amerigo Vespucci Buon Vento a voi Sagres\u00bb. Fu tutto; tutto e nulla in quelle poche parole. <\/p>\n\n\n\n

Un marinaio gira un ultimo sguardo al veliero che scompare, poi sputa in acqua e si allontana rialzando il bavero del tre quarti<\/em>. <\/p>\n\n\n\n

Sospesa a un\u2019alternanza di cieli la nave \u00e8 un organismo vivente che sulla dilatazione del tempo vibra nell\u2019universo di ogni individuo imbarcato \u2013 cento ottanta cinque volte uno. Rosei cadetti impacciati e alteri manobras<\/em> scolpiti da fasci di muscoli scuri, volteggiano come acrobati appesi alle sartie; intere notti addossati alla drizza di prua fissano il divenire delle tenebre; gli occhi scintillanti, si slanciano su per le scale d\u2019acciaio in cima agli altissimi alberi; scompaiono nell\u2019incoscienza in fondo a una branda tenuta dalle catene nel beccheggio dell\u2019Oceano. E oggi alle Azzorre mancano ancora due settimane. <\/p>\n\n\n\n

La Campana di Bordo<\/em> suona sulle navi soltanto in tre casi: affondamento, incendio, uomo a mare; il 29 luglio 1999, alle 00h27 a 38\u00b026’4 N \/ 0 19\u00b019’8 sull\u2019undicesima notte del viaggio di Sagres tra Rouen e Punta Delgada quella <\/em>campana batte i suoi rintocchi impensabili. La procedura prevede l\u2019immediato raduno sul ponte. Cos\u00ec come si \u00e8, gi\u00f9 dalle brande, cadetti, marinai, ufficiali sottoufficiali, meccanici, carpentieri, telegrafisti, cuochi, radiotrasmettitori, mozzi, sguatteri\u2026 \u2013 tutti \u2013 si precipitano in coperta.<\/p>\n\n\n\n

Nuno Miguel dos Santos Marques \u2013 anni 25, dal 2 giugno 1997 effettivo N.R.P. Sagres \u2013 durante il quarto notturno 00h00\/04h00 precipita a mare dalla seconda verga di mezzana. Non avendo agganciato il moschettone ai cavi di sicurezza, testimoniano due compagni, perde l\u2019equilibrio e cade nel buio. Dapprima colpisce di dorso il parapetto tribordo alla base delle scale metalliche indi la murata inferiore di testa; scomparso sott\u2019acqua, probabilmente trascinato verso il fondo fuori conoscenza, qui stimato mt 4.200 di profondit\u00e0.<\/em><\/p>\n\n\n\n

D\u2019un lampo le vele amarrate, tutti i fari accesi, lanciati i razzi e quattro boe luminose, due Zodiac e due scialuppe sono calati in acqua. Si cerca tutta la notte sul vasto sommovimento del mare. All\u2019alba arrivano due Hercules<\/em> della Forza Aerea. Inizia a piovere. Le scarpe di Santos Marques, rinvenute, giacciono sul ponte di comando, i lacci sfatti. <\/p>\n\n\n\n

Funereo, senza vele, in un convulso beccheggio, Sagres scandaglia lo stesso cerchio di mare per diciassette ore. I cavi delle sartie sbattono laschi alle crocette, i fischi seguitano a segnare i quarti <\/em>sotto al cielo dilavato. Gli occhi sull\u2019orizzonte nessuno trova la forza di articolare una parola. Alle 19h03 suona l\u2019adunanza generale. <\/p>\n\n\n\n

Il Comandante di Sagres si rivolge all\u2019equipaggio al gran completo. Gli tremano le mani. \u00abSignori, Ponta Delgada \u00e8 a 400 miglia dobbiamo abbandonare il teatro di questa sventura. Alle 21h00 con una cerimonia di addio saluteremo il nostro fratello scomparso<\/em>. Stasera due corvette della Marina Militare sono in arrivo dal Portogallo e saranno loro a proseguire le ricerche\u00bb. A 21h00: sulla latitudine 3821’8W ai piedi dell\u2019Albero di Mezzana l’equipaggio in equilibrio sull\u2019attenti oscilla nella risacca dell\u2019Oceano. Come dentro una monumentale cattedrale tre colpi di cannone sparano contro il cielo. Una tromba suona: Il Silenzio, L\u2019Onore ai Caduti, Il Risveglio<\/em>. <\/p>\n\n\n\n

Poi, inalberato il nero<\/em> sopra al bompresso, Sagres<\/em> issa tutte le tutte le vele e fa rotta verso l\u2019Isola di Sao Miguel.<\/p>\n\n\n\n

La scomparsa di un corpo non attesta il decesso e ancorch\u00e9 non vi siano altre ipotesi realistiche, di fatto, differenza drammatica e sostanziale, Santos Marques rimane ufficialmente un disperso<\/em>.<\/p>\n\n\n\n

Durante i primi giorni di viaggio avevo scattato una polaroid di tutto il personale imbarcato, riportato il numero di matricola e raccolto la firma di ognuno accanto alla propria immagine. Questa mattina il Comandante mi chiede di consegnargli la Polaroid di Santos Marques, estraggo dall\u2019armadietto metallico la scatola blu, dove ho archiviato le immagini in ordine alfabetico. Nella fila della lettera S trovo la fotografia di Miguel. <\/p>\n\n\n\n

Rivedo di colpo l\u2019istante in cui l\u2019ho scattata durante una manovra; riascolto la sua voce rispondere alla mia richiesta di firmarla articolare la parola \u00abpois\u00bb (pi\u00f9 tardi). Estraggo la fotografia e realizzo \u00e8 l\u2019unica non firmata.<\/p>\n\n\n\n

Ponta Delgada Isola di Sao Miguel, l\u2019alba. Dopo quattro settimane in alto mare appena i piedi poggiano sulla banchina le vertigini di un furioso mal di terra<\/em> mi assalgono. Provo a camminare come sul vuoto sopra una folla di ricordi. <\/p>\n\n\n\n

Ai piedi di un vulcano e di montagne coperte di fiori che si levano alte in mezzo all\u2019Oceano, adesso qui, dove i vichi affollati sboccano tra le acque calme di un porto lontano, il mio cammino \u00e8 giunto al termine. <\/p>\n","protected":false},"excerpt":{"rendered":"

Un libro \u00e8 il calco di un\u2019esperienza interiore, l\u2019orma delle storie che hanno attraversato un orizzonte privato della conoscenza del mondo. New York 1990, sono al termine di un corso di studi di fotografia, ho vent\u2019un anni e il mondo dinanzi agli occhi \u00e8 immediato e irraggiungibile.  Chiave o pretesto, in quel tempo credo che […]<\/p>\n","protected":false},"author":1,"featured_media":0,"comment_status":"closed","ping_status":"closed","sticky":false,"template":"","format":"standard","meta":[],"categories":[2,7],"tags":[14,16],"jetpack_sharing_enabled":true,"jetpack_featured_media_url":"","_links":{"self":[{"href":"https:\/\/www.giorgiafiorio.com\/wp-json\/wp\/v2\/posts\/413"}],"collection":[{"href":"https:\/\/www.giorgiafiorio.com\/wp-json\/wp\/v2\/posts"}],"about":[{"href":"https:\/\/www.giorgiafiorio.com\/wp-json\/wp\/v2\/types\/post"}],"author":[{"embeddable":true,"href":"https:\/\/www.giorgiafiorio.com\/wp-json\/wp\/v2\/users\/1"}],"replies":[{"embeddable":true,"href":"https:\/\/www.giorgiafiorio.com\/wp-json\/wp\/v2\/comments?post=413"}],"version-history":[{"count":1,"href":"https:\/\/www.giorgiafiorio.com\/wp-json\/wp\/v2\/posts\/413\/revisions"}],"predecessor-version":[{"id":414,"href":"https:\/\/www.giorgiafiorio.com\/wp-json\/wp\/v2\/posts\/413\/revisions\/414"}],"wp:attachment":[{"href":"https:\/\/www.giorgiafiorio.com\/wp-json\/wp\/v2\/media?parent=413"}],"wp:term":[{"taxonomy":"category","embeddable":true,"href":"https:\/\/www.giorgiafiorio.com\/wp-json\/wp\/v2\/categories?post=413"},{"taxonomy":"post_tag","embeddable":true,"href":"https:\/\/www.giorgiafiorio.com\/wp-json\/wp\/v2\/tags?post=413"}],"curies":[{"name":"wp","href":"https:\/\/api.w.org\/{rel}","templated":true}]}}